Quella calca che si muove come uno tsunami resta un ricordo indelebile per la città di Torino. Doveva essere una festa, invece, fu una tragedia: 1.600 feriti e due donne morte, Erika Pioletti e Marisa Amato. Ieri, a oltre tre anni e mezzo di distanza, è arrivata la condanna per la sindaca Chiara Appendino nel processo con rito abbreviato sui fatti di piazza San Carlo, dove, il 3 giugno del 2017, si svolse la partecipata proiezione su maxischermo della finalissima di Champions League tra Juventus e Real Madrid.

La giudice dell’udienza preliminare Maria Francesca Abenavoli le ha inflitto una condanna a 1 anno e 6 mesi per i reati di omicidio, lesioni e disastro colposi; due mesi in meno rispetto alle richieste del pm Vincenzo Pacileo, che aveva sottolineato come il grosso limite della manifestazione, organizzata in fretta e male, fosse che ognuno «avesse pensato di dover fare solo un pezzetto di quella che invece era un’opera collettiva».

Oltre ad Appendino, il Tribunale di Torino ha condannato per gli stessi reati e sempre a un anno e mezzo di carcere l’ex capo di gabinetto del Comune Paolo Giordana, l’allora questore Angelo Sanna, l’architetto Enrico Bertoletti e l’ex presidente dell’Agenzia Turismo Torino, Maurizio Montagnese. Tutti hanno ottenuto la sospensione condizionale della pena.

Tra le molte valutazioni che si possono fare c’è un dato di fatto, ovvero che si tratta di una condanna, che seppur appellabile, inficia fortemente la carriera politica di Chiara Appendino, un tempo punta di diamante del M5s in Italia. Ed è la seconda nel giro di pochi mesi. A fine settembre, le furono infatti comminati 6 mesi per falso in atto pubblico nel cosiddetto caso Ream, con l’accusa di un’errata imputazione a bilancio di 5 milioni di euro.

Piazza San Carlo a Torino, il 3 giugno 2017, foto LaPrsse

A ottobre, la sindaca aveva deciso di non ricandidarsi, ma solo pochi giorni fa qualcuno la vedeva ancora come possibile ministra di un ipotetico governo Conte ter. Serviva però l’assoluzione, e non c’è stata. Una via di fuga se l’è ritagliata nella politica sportiva, visto che è stata eletta nel consiglio federale della Fit, la Federazione italiana tennis. Un incarico che le potrebbe permettere di vivere in prima fila (ma anche questo è un interrogativo dopo la recente sentenza) le prossime Atp Finals, che ha contribuito a portare nella sua città.

Lasciando il Palagiustizia, la sindaca Appendino, senza nascondere una certa amarezza, ha sostenuto di pagare per «un gesto fatto da altri». E ha precisato: «C’è un sindaco che sostanzialmente paga per un gesto folle di alcuni ragazzi che sono già stati condannati anche in appello». Per il suo legale, Luigi Chiappero, «sono stati fatti imprevedibili, non c’è alcuna responsabilità».

E questo è il tema utilizzato da tutto il Movimento Cinque Stelle, da cui la sindaca si era autosospesa dopo la condanna Ream, che oggi per difendere la sindaca si scopre garantista e invita a una riflessione sull’esposizione personale e penale dei sindaci: «Ci chiediamo quale sindaco, da oggi – osserva il gruppo del M5s al Comune di Torino – si prenderà la responsabilità di organizzare un evento sul suo territorio con il rischio di pagare penalmente per mansioni tecniche non ascrivibili al suo incarico». Solidarietà alla sindaca arriva da diversi colleghi del centrosinistra, da Giuseppe Sala a Dario Nardella, passando per Antonio Decaro (presidente Anci) fino al suo predecessore Piero Fassino.

Chiara Appendino – ricordando come «il dolore per quanto accaduto quella notte» sia «ancora vivo» e se lo porterà sempre con sé – si dice «fiduciosa» di riuscire a far valere le tesi difensive «nei prossimi gradi di giudizio». Tesi che ribadiscono l’impossibilità di prevedere quanto poi accaduto (contrariamente a quanto sostiene l’accusa e come ha validato, ieri, il gup): «Se avessi avuto gli elementi necessari per prevedere ciò che sarebbe successo, l’avrei fatto. Ma così non fu e, purtroppo, il resto è cronaca». La sensazione è che nella fredda giornata di ieri si sia chiusa la parabola dei Cinque stelle alla guida di una città, che nel Novecento è stata capitale dell’automobile e che da troppi anni cerca un’identità senza trovarla.