Non avrebbe potuto esservi cornice più emblematica per il Global Climate Action Summit di San Francisco che la dozzina di incendi boschivi ancora attivi in California e l’uragano Florence che in contemporanea fustigava la costa Atlantica.

L’intento degli stati generali della lotta al mutamento climatico hanno infatti avuto il senso di lanciare un allarme rosso sugli effetti del riscaldamento atmosferico, ormai più che tangibili e che rischiano, come è stato sottolineato nella conferenza, di divenire presto «incompatibili con il funzionamento di una società organizzata».

Il summit è stato inoltre un gesto di sfida aperta nei confronti del negazionismo strumentale dell’amministrazione Trump che ha isolato gli Usa dal resto del mondo stracciando gli impegni sottoscritti a Parigi dal predecessore.

Il consesso è stato quindi un adunata della resistance suonata da Jerry Brown, l’amato governatore uscente della California e spina nel fianco di Trump, che in apertura ha qualificato il presidente come bugiardo criminale e stupido. Da sempre convinto ambientalista, Brown ha annunciato giovedì che la California punterà alla carbon neutrality entro il 2045: l’obiettivo ambientale più ambizioso del mondo è ora legge nella quinta economia mondiale.

Questo mentre Washington ribadiva ancora la scorsa settimana la linea «paleo-energetica» eliminando le restrizioni sulle emissioni di metano, dopo aver già azzerato normative sull’anidride carbonica, aperto parchi nazionali al trivellamento e incentivato le miniere di carbone. L’ostentata controtendenza planetaria di Trump è parte regalo a interessi economici conservatori e più ancora richiamo emozionale alla base nei distretti deindustrializzati.

i contro il Gcas di San Francisco ha riunito un’ampia ed eterogenea coalizione trasversale e transnazionale di enti locali, governi regionali, stati, regioni, città, imprese e ong decise a evitare il punto di non ritorno che le analisi scientifiche indicano come sempre più prossimo, indipendentemente dall’operato dei governi nazionali.

Il gruppo lavora per limitare il riscaldamento atmosferico a non più di due gradi e vi partecipano 205 giurisdizioni locali di 43 paesi in sei continenti (oltre a Los Angeles e alla California, ad esempio, aderiscono 23 città e due province cinesi e sette regioni italiane).

Insieme i firmatari rappresentano il 17% della popolazione mondiale e quasi il 40% del volume economico globale. Un movimento che si sviluppa in senso opposto all’isolazionismo e protezionismo dei neo sovranismi.

«Ovviamente vorremmo poter contare sul sostegno del governo federale», ha detto Brown, già firmatario di accordi bilaterali sul clima con Cina e Germania, «ma nel frattempo non staremo con le mani in mano». Una fotografia emblematica dunque dell’attuale disfunzione di governance e del potenziale ruolo di realtà politiche locali nel momento in cui la politica «maiuscola», dirottata sui binari di populismo e demagogia, abdica le proprie responsabilità primarie con effetti potenzialmente catastrofici.

Particolarmente in ambito ambientale, come ha detto l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg, si prospetta un modello di leadership dal basso: «Le decisioni operative vengono prese non dal governo federale ma da sindaci, consigli, cittadini e imprese». Chiave soprattutto le città, realtà «intersezionali» le cui collettività sempre più multiculturali rappresentano potenziali laboratori per resistere a oscurantismi e pulsioni nativiste e per implementare politiche ambientali progressiste.

A loro, e soprattutto ai giovani di tutto il mondo che tutto hanno da perdere, si è rivolto in video Barack Obama che ha ricordato come la nostra sia in tutta probabilità «la prima generazione ad avvertire gli effetti del mutamento climatico e potenzialmente l’ultima ad avere un’opportunità di evitarlo».

A San Francisco, dopo il messaggio di benvenuto di Robert Redford, si sono succeduti più di 50 sindaci (Tokyo, Los Angeles, Parigi, Londra, Varsavia Giacarta, Uppsala, Città del Capo…), 17 governatori di stati americani, primi ministri di nazioni più esposte a «rischi climatici» come l’innalzamento del livello dei mari (tra cui Barbados, Fiji, Bangladesh).

La questione ambientale non fa insomma che sottolineare la dicotomia politica sempre più pertinente fra realtà urbana e rurale, anche se ciò che è davvero emerso a San Francisco è la dimensione interconnessa del problema climatico in cui si intrecciano il controllo delle emissioni e dei consumi, la conversione tecnologica (e agricola) e la protezione degli ecosistemi prossimi al collasso.

Di questi ultimi ha parlato appassionatamente Harrison Ford, portavoce di Conservation International, che ha ricordato che se non si riuscirà a rallentare la distruzione di barriere corallifere, mangrovie e foreste vergini – dei naturali sink biosferici in grado di contenere naturalmente l’anidride carbonica – a nulla varranno gli altri sforzi. «Se non sapremo proteggere la natura non riusciremo a proteggere noi stessi» ha concluso Ford. «E per amor del cielo smettiamo di eleggere leader che non credono o per interesse fanno finta di non credere alla scienza!».