A metà luglio del 1994 Kigali, la capitale del Ruanda, era un luogo desolato e terribile. Le truppe del Fronte patriottico ruandese (Fpr) stavano per conquistare la città e i paramilitari dei gruppi di etnia Hutu insieme all’esercito nazionale preparavano la fuga cercando di portare a termine la loro opera folle di sterminio dei cittadini tutsi rimasti. I giornalisti erano quasi assenti e ciò che sappiamo di quei giorni tragici l’abbiamo appreso dalla viva voce dei superstiti, molti dei quali all’epoca erano bambini.

Sono passati 27 anni e oggi le strade di Kigali sono vuote per il nuovo lockdown imposto dalle autorità a seguito di un’impennata dei contagi di Coronavirus. Il governo di Paul Kagame, lo stesso che guidava il Fpr nell’avanzata del ’94 e che dal 2000 è il presidente del Ruanda, ha deciso di richiudere tutti gli uffici e le attività commerciali, limitando fortemente la partecipazione a ogni tipo di cerimonia.
Persino le commemorazioni per il Kwibuka, l’anniversario che ogni anno ricorda i cento giorni del genocidio che costò la vita a quasi un milione di Tutsi e agli Hutu che li aiutarono o che si opposero ai massacri, quest’anno si sono tenute senza le cerimonie solenni che sono diventate il cuore della politica culturale del governo ruandese.

EPPURE LA LEADERSHIP di Kagame non sembra affatto in discussione. Al contrario, quest’anno è riuscito a ottenere le scuse ufficiali della Francia che tramite le parole del presidente Emmanuel Macron ha «riconosciuto le proprie le responsabilità» in quanto «la Francia non si è resa complice ma ha fatto per troppo tempo prevalere il silenzio sulla verità». Che si tratti di un tentativo di ricucire i rapporti commerciali e strategici con il Ruanda, di accreditarsi come governante illuminato agli occhi dell’opinione pubblica mondiale o di un atto dovuto e fortemente influenzato dal famoso “dossier” preparato dai ruandesi sulle responsabilità «attive e passive» di Parigi non è semplice stabilirlo, anche se un punto resta: il prestigio di Kagame agli occhi dei capi di governo Occidentali non è attualmente in discussione. Stupisce che in un’epoca in cui si liquidano 62 anni di Rivoluzione Cubana come «dittatura liberticida» nessuno abbia sentito il bisogno di sollevare, perlomeno, qualche perplessità.

Paul Kagame e il suo partito sono stati artefici della rinascita del Ruanda, ciò è innegabile. Hanno interrotto il genocidio e scacciato i genocidari, abolito l’obbligo di indicare l’etnia di provenienza sui documenti e risollevato l’economia portandola a una stabilità riconosciuta a livello internazionale (che attira ingenti investimenti da parte degli stati Occidentali). Ma bisogna anche ricordare che nel 2002, ad esempio, l’ex-presidente Pasteur Bizimungu è stato processato e arrestato per un reato definito «divisionismo» e nel 2010 alla leader dell’opposizione, Victoire Ingabire, è toccata la stessa sorte.

A Diane Rwigara, imprenditrice e attivista per i diritti civili delle donne scampata al genocidio, è andata peggio: dopo aver annunciato di volersi candidare alle elezioni presidenziali è stata arrestata per corruzione e incarcerata per un anno prima di essere assolta in appello e scoprire che tutti i suoi beni erano stati sequestrati e venduti all’asta dallo Stato.

PERSINO ALCUNI MEMBRI del Fpr sono stati colpiti. È il caso di Patrick Karageye, che aveva assunto posizioni fortemente critiche verso Kagame e che è stato prima costretto alla fuga e poi assassinato da ignoti nel 2014 in Sudafrica. Un suo collega, Kayumba Nyamwasa, stando alla Bbc, è scampato ad almeno due tentativi di omicidio.

Inoltre, c’è la questione di Paul Rusesabagina, colui che il mondo ha conosciuto tramite il film Hotel Ruanda e che da molti è considerato come lo Schindler africano, arrestato in un’imboscata dai servizi segreti ruandesi a fine agosto 2020, da quel momento è trattenuto in cella con accuse che potrebbero costargli l’ergastolo o, addirittura, la pena capitale.

SENZA CONSIDERARE che la stabilità politica e l’appoggio internazionale hanno permesso al Ruanda di dotarsi di uno degli eserciti più forti della regione, riuscendo a intervenire attivamente nelle guerre scoppiate in Congo, in Uganda, in Burundi e, addirittura, a costituire dei contingenti da inviare all’estero. Come è accaduto la scorsa settimana, quando Kigali ha inviato di mille soldati ruandesi in Mozambico per supportare le truppe locali nella lotta ai combattenti dell’Isis nell’area petrolifera di Cabo Delgado.

In molti, soprattutto in seno alla Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale, hanno storto il naso vedendo in quest’intervento un’ingerenza del governo di Kagame e, forse, un tentativo di beneficiare della ricca produzione di idrocarburi della regione.
Insomma, al momento la parabola di questo leader africano sembra tutt’altro che discendente, ma viene scontato chiedersi perché, ancora una volta, in Occidente il metro di giudizio della politica e dei media sia sempre così equivoco.