Per tentare di tratteggiare dal punto di vista psichico l’impatto che il terremoto del 6 aprile 2009 ha avuto sulla popolazione di L’Aquila partirei da Amatrice, la cittadina laziale distrutta da uno dei tanti eventi sismici che si sono susseguiti in questi dieci anni nell’appennino centrale.

UNA MIA COLLEGA psicoterapeuta di ritorno da Amatrice, dove svolge un servizio di ascolto due volte a settimana, mi racconta di come quella comunità, ai suoi occhi esterni, sembra attraversata da mille rancori e odi. Le sistemazioni in casette post-sisma, una vicina all’altra, separate solo da una paretina di cartongesso, rende questi sentimenti ancora più amplificati. Quello che colpisce del suo racconto è come la catastrofe abbia per molti versi accelerato e amplificato meccanismi regressivi dal punto di vista psicologico, sia a livello individuale sia a livello sociale. Accelerato in quanto questa inondazione di «passioni tristi», come le definì Miguel Benasayag, e slatentizzazione senza inibizioni di sentimenti di rabbia e rancore, sono tratti ampiamente diffusi ormai nelle nostre società. In questo senso la catastrofe con il suo portato di precarietà estrema e disperazione ha reso solo più veloce questi processi in atto.

Ognuno di noi si concentra ossessivamente sulla sua vicenda personale (la casa distrutta, il lavoro perduto, il quotidiano difficile, il meccanismo infernale dei processi amministrativi, quando approvano il mio progetto, quanti soldi mi danno, quando inizio i lavori) e questo va a discapito del senso di comunità che adesso è difficile ricostruire. Sulla forza d’animo (in termini moderni, resilienza) delle popolazioni di montagna, come dei disturbi post-traumatici da stress, si è scritto già molto, quello che meriterebbe a mio giudizio un approfondimento è lo studio del processo che ha portato una comunità di provincia, quindi per sua natura chiusa, pettegola, spesso malevola, ad inasprire questi tratti.

A L’AQUILA – ma non solo – il futuro è vissuto con angoscia, la ricostruzione, per alcuni versi andata spedita per altri meno, lascia un senso di sospensione; i palazzi del centro stanno tornando uno ad uno ad antichi splendori, ma il nucleo storico, centro di gravità di questa comunità, è ancora avvolto da un desolante senso di vuoto. L’università è tornata al funzionamento ordinario ma non è più quella di prima, la movida degli universitari downtown non c’è più.

I cittadini continuano a incontrarsi in quelli che Augé ha chiamato «non-luoghi», la cui vocazione non è territoriale, non crea identità singole, rapporti simbolici e patrimoni comuni ma è anti-relazionale, anti-identitaria, piuttosto facilita l’ammassamento di persone divenute consumatori anonimi, ad alto livello di consumo energetico e a bassa intensità di relazione. I correlati psicologici del vivere nei «non luoghi» sono spesso la perdita di identità, la frammentazione sociale, l’isolamento, la solitudine, la depressione, lo sradicamento; il non-luogo può determinare in chi lo abita un impoverimento psichico che si traduce in indifferenza civile, in depauperamento linguistico e relazionale che spesso si evidenzia sui social. Lo svuotamento dei movimenti civici e la scomparsa della tensione politica testimoniano questa chiusura venata di rassegnazione.

LUNGO POTREBBE essere il discorso sulla apatica capacità di sopportazione delle genti che vivono l’asprezza della natura, dai cafoni di Silone ai vinti di Verga. Lo storico aquilano Raffaele Colapietra in un’intervista a questo giornale ebbe a dire che si può essere vinti dal destino o da sé stessi, riferendosi all’incapacità, nella seconda ipotesi, di molta parte di suoi concittadini di progettare la ricostruzione subito dopo il sisma, preferendo invece affidarsi passivamente alla protezione civile.

Questo abbandonarsi alle onde del destino lo ritroviamo nell’attribuire al terremoto responsabilità di tutti gli accadimenti personali, anche i più intimi. La quasi totalità dei pazienti che giungeva in terapia negli anni successivi al 6 aprile 2009 imputava a quella catastrofe anche i propri guai relazionali, affettivi ed emotivi. Molte coppie in crisi attribuivano al terremoto le loro difficoltà coniugali, «dopo il terremoto è iniziato il declino», «prima andavamo tanto d’accordo».

Oppure su un ambito genitoriale: «Prima i figli erano ubbidienti», «se ha fatto quello che ha fatto (spaccio, furti, piccoli reati) è stato per colpa del terremoto». È del tutto evidente che l’evento sismico e quello che ha richiesto in termini di adattamento, strategie di coping, forza d’animo, ha messo a dura prova le resistenze individuali e sociali; in questa ottica però sarebbe stato opportuno chiedersi – domanda che pongo sistematicamente ai pazienti – se il sisma è stato il generatore della crisi o l’amplificatore e/o disvelatore. Le situazioni di estrema difficoltà ci mettono alla prova, svelando la vera natura e forza di una unione e di una struttura di personalità. Anche in questo senso il terremoto o meglio le conseguenze del terremoto sono state un acceleratore di processi in atto o rimossi.

DIVIENE INTERESSANTE notare come in epoche premoderne la causa di una catastrofe naturale veniva attribuita all’ira degli Dei o di Dio per comportamenti sbagliati degli umani. Ora in epoca moderna accade il contrario: le colpe della Natura causano i guai degli umani. Un’inversione nel processo di attribuzione delle responsabilità che finisce per assolvere o sollevare gli uomini dai loro doveri nei confronti di se stessi e del mondo che abitano.

La mancata prevedibilità del sisma e tutto quello che ha generato l’emergenza post-sisma hanno finito per confermare e sedimentare una sensazione di insicurezza e angoscia di fronte agli eventi. Le passioni tristi iniziano ad affermarsi e la società aquilana regredisce dal punto di vista del costume e del vivere comunitario ad una dimensione arcaica, un tempo remoto in cui la città era chiusa ed isolata. Si affermano atteggiamenti di chiusura e diffidenza, la maldicenza (già celebrata in città da un’apposita festa, Sant’Agnese) inquina la politica, le professioni, la vita personale.

La città-territorio ovvero il tentativo che L’Aquila aveva fatto, anche con un certo successo, di diventare centro di gravità per le aree interne dell’Abruzzo, viene spazzata via. I piccoli centri finiscono di spopolarsi – anche qui il sisma è stato un acceleratore di processi in atto – e quello che rimane si auto-organizza in forme molecolari. Mai come in questo momento, a mio avviso, L’Aquila è una città chiusa e municipale, ripiegata su se stessa, affetta da una nostalgia passiva. E infatti la cultura sovranista che si è affermata a livello nazionale ha trovato qui un terreno pronto, tanto che il sindaco di Casapound/Fratelli d’Italia vince le elezioni con lo slogan: «Prima gli aquilani!».

RICORDO SEMPRE un momento delle manifestazioni contro la chiusura del polo industriale aquilano a inizi anni Duemila, e di come alcuni manifestanti urlavano la loro rabbia perché «solo all’Aquila le industrie chiudono». A nulla valse il tentativo di alcuni di spiegare loro che la chiusura dello stabilimento aquilano seguiva quella di altre mille fabbriche in Italia e in Europa, e quindi non era frutto di un sentimento anti-aquilano ma di una crisi di sistema.

La chiusura municipalista porta a questo: ad estraniarsi e sentirsi soli, in balia di un destino crudele e persecutorio. Questi tratti, sempre presenti nella nostra cultura locale, hanno trovato sicuramente con il sisma una loro amplificazione e conferma. La città sparpagliata è esplosa da ogni punto di vista, urbanistico, sociale e di relazioni. Contrastare questa tendenza richiederebbe una grande maturità politica, che guardi al di là delle scadenze elettorali e che sia in grado di ricucire urbanisticamente e socialmente il tessuto urbano.

Naturalmente non tutto è così fosco, le differenze sono molte, anzitutto generazionali. I più giovani tendono ad andare via non solo per la crisi occupazionale ma, credo, soprattutto per l’angustia fisica, spaziale e sociale in cui la città è precipitata. Le reazioni sono individuali, e molte sono le richieste di aiuto agli psicoterapeuti, i quali, oltre che trattare il sintomo da manuale, dovrebbero aprire le loro stanze allargando lo sguardo e l’attenzione al Luogo.

*Psicoterapeuta e docente all’università dell’Aquila