Partita doppia per Richard Raskind
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Partita doppia per Richard Raskind

Sport Storia dell'unica persona ad aver partecipato agli Us Open di tennis sia nel torneo maschile sia in quello femminile
Pubblicato circa un mese faEdizione del 7 settembre 2024

Durante le ultime Olimpiadi ci si è spesso concentrati su dettagli piuttosto che sulla sostanza delle cose. Sono deflagrate polemiche da social sui letti di cartone del villaggio olimpico, sulla qualità del cibo servito agli atleti, sui ristoranti troppo cari. Persino la travagliata vicenda umana e sportiva della pugile algerina Imane Khelif, oggetto di estesa disinformazione e bieche strumentalizzazioni politiche è stata ridotta a lite da ombrellone e si è persa l’occasione per una riflessione sul diritto di ognuno di praticare sport senza discriminazioni e in condizioni di assoluta parità.

La finale femminile dell’ultima prova dello Slam in programma a Flushing Meadow offre il destro per uno sguardo retrospettivo su una storia che già conteneva tutte le implicazioni presenti nel caso di Khelif. Ci si riferisce a Renée Richards, che nel 1977 – a seguito di una sentenza della Corte Suprema di New York – divenne la prima e finora unica persona a disputare gli US Open di tennis sia come uomo che come donna.

L’anno prima, alla bella età di 42 anni, la sconosciuta Richards vinse la finale del torneo di La Jolla in California, lasciando appena due game alla rivale Robin Harris. Il pubblico apprezzò il suo potente servizio mancino e i precisi colpi di rimbalzo, che ingenerarono nel giornalista Dick Carlson una sensazione di déjà-vu. Da buon reporter investigativo, Carlson individuò nella vincitrice venuta dal nulla l’oftalmologo Richard Raskind, che negli anni ‘50 aveva giocato per cinque volte i Campionati americani a Forest Hills, rimediando appena due vittorie.

Raskind era nato nella «Grande mela» da una famiglia ebrea e alla facoltà di Yale si era imposto come un atleta di alto livello con un segreto inconfessabile: nel chiuso della sua stanza, si rasava le gambe e nascondeva i genitali di fronte allo specchio per sembrare una ragazza. In un’epoca fortemente sessuofobica, nella quale neanche esisteva la parola per definire la loro condizione, le persone «trans» venivano trattate come fossero affette da una profonda patologia psicologica. Dopo anni di tormento interiore, ricorrenti depressioni e pulsioni suicide, dopo aver avuto anche un figlio da una ragazza col fisico da pin-up, nel 1975 il dott. Raskind aveva affrontato l’operazione di cambio sesso e aperto uno studio oculistico sulla costa occidentale: avesse saputo contenere la passione per il tennis, la sua vita sarebbe forse trascorsa nel totale anonimato. Invece, finì nel tritacarne dei mass media e al torneo seguente 25 delle altre 32 iscritte si ritirarono per protesta, affermando che Richards avrebbe alterato la regolarità della competizione a causa del suo presunto vantaggio fisico e atletico. L’episodio fece scattare un clic nella testa di Richards: dopo che la sua psiche era stata rivoltata come un calzino da legioni di analisti, ora non poteva sopportare che le si dicesse cosa fare o non fare. Così fece domanda di iscrizione al singolare femminile degli US Open.

Le persone con identità di genere non binaria erano sempre state forzate a gareggiare nell’una o nell’altra categoria e i regolamenti sportivi si erano limitati a prescrivere semplici verifiche dei caratteri sessuali primari e secondari. Spinta dall’inedita circostanza, la federazione tennistica americana (USTA) impose a Richards un test cromosomico, che produsse esiti ambigui – cosa non troppo singolare, considerato che quasi il 2% della popolazione possiede caratteristiche intersessuali. L’iscrizione fu perciò respinta e Richards citò in giudizio la USTA. Il pronunciamento del giudice Ascione, come anticipato, favorì la querelante, che nel corso del dibattimento attinse a piene mani ai più vieti luoghi comuni sulla femminilità: indossò abiti e trucco appariscenti, ostentò fragilità emotiva, insisté sulla propria scarsa massa muscolare, ridotta dall’assunzione di estrogeni e progesterone. Lungi dal far avanzare il senso comune sulle mille sfumature della sessualità umana, processo e sentenza ribadirono pertanto la rigida divisione binaria fra maschi e femmine.

A completare l’effetto di riordinamento conservatore in un’epoca in cui le convenzioni sociali erano scosse dalle lotte alte del femminismo, molte leader del movimento si schierarono contro Richards, denunciando il rischio di una «invisibilizzazione» delle donne con argomentazioni che echeggiavano quelle che a lungo erano state usate per tenerle fuori o ai margini dell’arena sportiva. Invece, la tesi dell’ingiusto vantaggio atletico di cui avrebbe goduto Richards spinse in rotta di collisione i pilastri fondanti dello sport moderno, ossia l’irrinunciabile par condicio di partenza che assicura un campo di gioco livellato e il diritto universale all’inclusione nel rispetto delle diversità umane: lo stesso dilemma etico che si legge in tutta evidenza nella vicenda di Khelif e che ruota intorno al dubbio su cosa sia un vantaggio ingiusto nello sport e se la risposta che gli diamo non dipenda dai ruoli stereotipati in cui costringiamo le donne.

Non consideriamo un vantaggio ingiusto le differenze dei contesti sociali di provenienza (il reddito pro-capite o la possibilità di accedere o meno a strutture sportive, ecc.) che pur protendono i loro effetti sugli esiti delle gare. D’altra parte, la lista delle variazioni genetiche è così lunga da essere interminabile: dal cuore brachicardico di Fausto Coppi all’elevata concentrazione di globuli rossi dello sciatore finlandese Eero Mäntyranta, fino alla ridotta produzione di acido lattico di Michael Phelps e alla sua sproporzionata apertura alare. Però, quando questi scostamenti dalla normalità riguardano gli uomini sono di solito salutati con ammirazione. Al contrario, fisici inusuali e singolarmente adatti allo sport, se posseduti da donne, sono oggetto di minuziose indagini che violano le sfere più intime della persona, mettono in dubbio l’identità sessuale o determinano l’imposizione di trattamenti sanitari su persone sane, come nel caso della fondista sudafricana Carsten Semenya.

Le autorità sportive sono inclini ad applicare politiche discriminatorie allo scopo di preservare l’integrità dello sport femminile e il principio dell’equità competitiva, anche a costo di violare i diritti umani e di limitare l’universalità dell’accesso allo sport. In un’età sempre più gender-fluid, nuove e crescenti tensioni richiederanno regolamenti più inclusivi e più scientificamente fondati.

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