Pochi giorni fa il progetto per un massiccio intervento di urbanizzazione israeliana nella Città Santa ha ricevuto l’approvazione da parte delle autorità municipali di Gerusalemme: riguarda la realizzazione di un nuovo quartiere ebraico nell’area di Atarot, dove un tempo sorgeva l’aeroporto di Gerusalemme. Siamo nella parte orientale della città – che, lo ricordiamo, è un territorio illegalmente occupato da Israele dal 1967.

Si tratta del più grande progetto di colonizzazione di Gerusalemme mai approvato: prevede la costruzione di 9.000 abitazioni per ebrei su un’area di 1,2 milioni di metri quadrati. Questo progetto, da solo, equivale a più del 15% di tutte le unità abitative per ebrei costruite a Gerusalemme Est dalle autorità di Tel Aviv dal 1967 in avanti, e si aggiunge ad altre recenti espansioni ebraiche, seppur di dimensioni più contenute (per esempio, a Pisgat Ze’ev e Gv’at HaMatos). Non sono solo le dimensioni del piano di urbanizzazione di Atarot a farne un progetto particolarmente problematico, ma anche la sua localizzazione: se fosse concretizzato, separerebbe fisicamente dal resto delle aree palestinesi di Gerusalemme il quartiere arabo di Kafr Aqab, tra i più popolosi della città. La gravità di questo progetto è testimoniata dal fatto che persino l’amministrazione Trump ne aveva bloccato la realizzazione. Nonostante tutto ciò, è prevedibile che la reazione della comunità internazionale si limiterà a flebili proteste di natura meramente formale, come regolarmente succedere da decenni.

Il termine «colonizzazione», ripetuto più volte nelle righe precedenti, potrebbe suonare desueto. In verità è il termine più appropriato per identificare l’azione israeliana nei Territori palestinesi. Infatti, a partire dal 1967 Israele ha ininterrottamente espanso la propria presenza fisica e il proprio dominio su territori che, secondo il diritto internazionale, non gli appartengono (e che ancora oggi occupa manu militari). Questo processo ha assunto caratteri parossistici a Gerusalemme.

La Città Santa è passata dall’essere nel 1967 una città divisa – per metà controllata e abitata da israeliani (Gerusalemme Ovest) e per metà controllata e abitata da palestinesi (Gerusalemme Est) – all’essere oggi una città quasi interamente israeliana, in cui i quartieri palestinesi (poveri, degradati e segregati) sono sporadiche sospensioni dell’ininterrotto tessuto della città ebraica. A fronte di ciò, temo abbia ormai poco senso parlare della creazione in Israele/Palestina di due Stati per due popoli – ipotesi che prevederebbe anche la ridivisione di Gerusalemme. Semplicemente perché questa possibilità non è più inscrivibile nella geografia reale dell’area, esattamente per effetto di mezzo secolo di colonizzazione israeliana: la Cisgiordania e – ancora più – Gerusalemme sono state inondate da centinaia di migliaia di case, fabbriche, edifici pubblici, infrastrutture, negozi e uffici israeliani. Rimuovere questi artefatti (e, ancor più, le centinaia di migliaia di israeliani che li abitano) è praticamente impossibile.
Il leitmotiv dei «due Stati per due popoli» non rischia di essere solo anacronistico, ma anche, involontariamente, deleterio. Ostacola infatti la costruzione di consenso attorno a ipotesi alternative.

Tra queste, è degna di nota quella sostenuta da una rete di intellettuali, accademici e attivisti israeliani e palestinesi, che propone la creazione di un unico Stato democratico nell’intero territorio di Israele/Palestina. Qui, infatti, c’è già de facto un unico Stato che governa. Ed è quello israeliano. Ma lo Stato israeliano che oggi governa Israele/Palestina non è realmente democratico. È, invece, una etnocrazia, ossia uno Stato che garantisce la supremazia e il dominio di un gruppo (gli ebrei-israeliani) su un altro (gli arabo-palestinesi). Ciò avviene tanto all’interno dei confini legittimi di Israele, quando all’interno dei territori palestinesi occupati. In questi ultimi è stato instaurato un vero e proprio regime di apartheid, con diversi tratti di analogia con ciò che era in vigore in Sudafrica tra il 1948 e il 1991.

È su questo sfondo che nasce l’idea di costruire consenso attorno alla proposta di istituire un’unica democrazia costituzionale in Israele/Palestina, che assicuri a tutti i cittadini uguali diritti, libertà e sicurezza, senza discriminazione alcuna basata su etnia, appartenenza culturale o altro. Uno Stato che garantisca la protezione dei diritti dei diversi gruppi che abitano l’area, senza che alcun gruppo ne domini un altro. Uno Stato che garantisca giustizia economica e sociale per gruppi (gli ebrei-israeliani e gli arabo-palestinesi) che partono da una situazione economica radicalmente diversa – anche e soprattutto a causa dell’occupazione militare israeliana.

È sicuramente una soluzione politica non facile da attuale (le altre ipotesi oggi in campo lo sono forse meno?) e dal sapore irrealistico (ma anche la fine dell’apartheid sembrava velleitaria nel Sudafrica degli anni Settanta). Tuttavia, per lo meno, delinea una prospettiva di uscita, possibile e giusta, dal vicolo cieco nel quale la colonizzazione israeliana ha cacciato le prospettive di pace nell’area.

* docente dell’Università degli Studi di Torino