Nel Caucaso, un altro pezzo di “mondo russo” potrebbe tornare presto alla “madrepatria”: la repubblica separatista dalla Georgia dell’Ossezia del Sud ha annunciato un referendum per sull’annessione alla Russia.

Il Sud-Ossezia è uno Stato «riconosciuto» (solo da Mosca, Venezuela, Nicaragua, Siria e Nauru) da quando la Georgia cercò nell’estate del 2008 di riprenderne possesso manu militari.

LA GEORGIA era allora guidata da Mikhail “Misha” Saakashvili, principale poster boy dell’Occidente euro-americano. Frutto anch’egli di un regime al potere grazie ad un putsch finanziato dagli Usa (fortunatamente meno cruento di quello ucraino di Maidan), “Misha” – poi riciclatosi a Kiev come ministro e alla fine arrestato ed espulso da Poroshenko – condusse a fianco di un liberismo sfrenato una politica di militarizzazione pro-Nato che risultò nell’operazione “campo pulito” (clean field), che provocò l’intervento della Russia in 5 giorni.

Il nome lasciava pochi dubbi sull’intenzione di procedere ad una pulizia etnica definitiva di una regione troppo strategica per autodeterminarsi con le sue simpatie pro-russe.

Gli osseti sono un popolo indoeuropeo lasciato diviso (esiste un Nord Ossezia parte della Federazione Russa) nel quadro della politica sovietica delle nazionalità impostata dal georgiano Stalin. Nel breve periodo della sua prima indipendenza (1918-21), la Georgia aveva già proceduto a far terra bruciata dei villaggi osseti (5000 vittime, 25.000 rifugiati), ricostruiti poi dall’Urss.

ALLA CADUTA di quest’ultima, i georgiani eleggevano presidente un paranoide fascista, Zviad Gamsakhurdia. Dopo averne abolito l’autonomia sovietica, al grido di “la Georgia ai georgiani”, Zviad scagliò tutte le forze del paese (inclusi i criminali detenuti) contro gli osseti.

Nel caos post-sovietico, con il sostegno dei cugini settentrionali e degli altri popoli del Caucaso russo, gli osseti ressero l’urto pagando un tributo di sangue (1000 vittime) mentre i circa 100.000 loro consanguinei, residenti in Georgia al di fuori della regione autonoma, venivano espulsi dalle loro case da bande di georgiani.

Se su tale sfondo storico, l’organizzazione del referendum esprime la politica interna della piccola entità (non più di 30.000 residenti, eppur discontinui dato il pendolarismo con il nord). L’8 maggio gli osseti hanno eletto il loro presidente, sfiduciando l’incombente Anatoly Bilbov a favore dello sfidante Alan Gagloev.

DOPO IL RICONOSCIMENTO russo, i gruppi al potere a Tskhinvali hanno giocato con la questione riunificazione. Tutti i politici sanno come questa sia la volontà della maggioranza ma allo stesso tempo nessuno vuole perdere le prebende e gli stipendi (10 volte maggiori degli amministratori nel nord) elargiti da Mosca. Accusata la sconfitta, come ultimo atto in carica Bibilov ha indetto il referendum il 17 luglio, ultima ripicca contro l’avversario.

È il terzo referendum per l’annessione, dopo simili consultazioni svoltesi nel 1992 e nel 2006. La posizione osseta si differenzia da quella dell’altra repubblica separatista georgiana, l’Abkhazia, ferma nella volontà di divenire a sua volta uno Stato indipendente.

Così come nel Donbass, negli ultimi 14 anni la Russia ha preferito mantenere finzione giuridica dell’indipendenza sud-osseta per far pressione sulla Georgia che chiede di entrare nell’Ue e nella Nato.

Gli stravolgimenti in atto con la guerra in Ucraina cambiano tutto anche su questo teatro. C’è la responsabilità della Russia, ma anche dell’Occidente che negli ultimi trent’anni ha sostenuto a Tbilisi regimi corrotti, inetti e, a tratti, apertamente razzisti.

*esperto di Caucaso, collaboratore di Limes