Alessandro Pavesi partecipa da diversi anni ai rilevamenti che servono a determinare il Fbi. È un’attività particolarmente complessa, non per le pratiche in sé, ma per le conoscenze che servono ad attuarle. «Nell’ambito di questo progetto, il monitoraggio si basa sulle specie comuni nidificanti in Italia. La ricerca sul campo si fa sempre nello stesso modo: si individuano delle particelle di 10 chilometri per 10, che a loro volta vengono suddivise in 15 sotto-particelle. Ognuna di queste ultime diventa un punto di osservazione e di ascolto: si registra in dieci minuti sia quello che si vede che quello che si sente entro i cento metri. Tendenzialmente si va con le prime luci del mattino, quando c’è il picco di attività, perché molte specie cantano all’alba. In ogni sotto-particella si va per un solo giorno, tra il 15 maggio e il 30 giugno, ovviamente con tempo buono: quando non piove, non c’è nebbia o vento».

OLTRE AL RILEVAMENTO numerico, nel monitoraggio si indicano anche altre caratteristiche: il sesso, l’età (viene riportato se è un esemplare è giovane), se c’è un’attività riproduttiva in corso, se si tratta di volto alto o meno. L’aspetto più difficile all’occhio del profano è ovviamente riconoscere le singole specie. «Magari la ricerca, come nel nostro caso, vuole monitorare 20 specie, ma in quell’area ce ne sono 100. In Italia sono presenti 500 specie di uccelli, bisogna avere una grande conoscenza e fare molta pratica. Anche perché non si tratta di distinguere solo il canto, che generalmente è prerogativa del maschio quando difende un determinato territorio, ma di riconoscere tutti i versi. Io ho iniziato una decina di anni fa, ma avevo già un’esperienza, soprattutto visiva, che avevo esercitato fin da piccolo. In Italia, non essendoci una formazione specifica in ornitologia, i rilevatori arrivano da esperienze diverse: ci sono biologi, veterinari, naturalisti, tecnici faunistici».

AL DI LA’ DEI NUMERI, anche la semplice memoria aiuta a confermare i dati raccolti dalla ricerca: «Io vado nella campagna viadanese e posso confermare il calo relativo all’allodola (-50% secondo il Fbi). Quando iniziai, mi ricordo che facevo fatica a identificarle, perché i loro canti si sovrapponevano. Ora la situazione è decisamente differente: c’è molta meno musica nei campi».

MONOCOLTURE, PESTICIDI, mancanza di siepi, filari e incolti vanno a colpire pesantemente l’avifauna. «Ancora prima della mancanza di cibo, viene a mancare l’habitat dove nidificare. Se l’averla piccola nidifica tra gli arbusti e le siepi vengono ovunque rimosse, può esserci tutto il cibo del mondo, ma mancano le condizioni base…».

ANCHE UNA EVENTUALE MAGGIORE disponibilità dell’ambiente urbano a «rinverdire» i giardini non può compensare di molto il calo. «È sicuramente utile per le specie migratrici, che possono trovare cibo o riparo temporaneo, ma non per quelle che nidificano. La maggior parte di quelle prese in esame hanno bisogno di ampi spazi aperti. Le specie rupicole o forestali invece hanno maggiore capacità di adattamento e il falco pellegrino per esempio ha preso l’abitudine di nidificare nei campanili delle chiese, o a Milano su un grattacielo come il Pirellone. In montagna invece c’è il problema dell’aumento della superficie occupata dal bosco: per le specie che lo abitano è un aiuto, ma per quelle che hanno bisogno degli spazi aperti è una ulteriore difficoltà. Infatti registriamo un calo meno marcato rispetto alla pianura, ma comunque una diminuzione».