Andrea Orlando, ministro del Lavoro. Lei sta facendo una campagna elettorale proponendo misure contro il precariato, lo stesso Letta ha archiviato il Jobs Act di Renzi. Ritiene che questo messaggio stia effettivamente arrivando agli elettori?

Girando l’Italia vedo un atteggiamento di maggiore disponibilità all’ascolto delle nostre proposte, di minore ostilità anche da settori che ci avevano voltato le spalle col Jobs Act, che è stato solo il culmine di una serie di errori sui temi del lavoro. Bisogna insistere in questi ultimi giorni. La nostra non è una improvvisazione alla vigilia del voto, si tratta di un cambiamento che inizia nel 2019, nel congresso vinto da Zingaretti e poi è proseguito nel governo Conte 2, dove abbiamo fatto scelte in netta discontinuità con le politiche neoliberiste. I provvedimenti mirati all’inclusione e al contrasto alla diseguaglianze non sono stati dovuti solo alle necessità della pandemia, ma ad una precisa scelta. Nel governo Draghi abbiamo lavorato per portare avanti la stessa piattaforma, ottenendo, tra le altre cose, una buona riforma degli ammortizzatori sociali, un rafforzamento dell’ispettorato del lavoro, un Pnrr mirato all’inclusione e al contrasto alle diseguaglianze.

E ora sembra che sia proprio Conte a beneficiare di quelle scelte, a recuperare voti nei ceti più sofferenti.

Negli ultimi mesi eravamo vicini a traguardi come il salario minimo, il superamento legge Fornero e interventi sul cuneo fiscale e contro la precarietà. Non li abbiamo potuti realizzare a causa della caduta del governo Draghi. A Conte avevo chiesto di aspettare la fine del confronto con le parti sociali su questi temi, prima di togliere l’appoggio al governo. Non ci hanno ascoltato ed è stato un grave errore.

La campagna M5S appare più netta sui temi sociali rispetto alla vostra.

Non condivido. I fatti dicono che, anche all’epoca del conte 2, è stato il Pd, con Amendola e Gualtieri, ad avere un ruolo fondamentale per far sì che l’Ue uscisse dalla linea dell’austerità. E quando ho proposto di prorogare il blocco dei licenziamenti loro sono apparsi molto timidi, così come quando ho chiesto alle imprese beneficiarie di aiuti di rinnovare i contratti. Diciamo che la loro radicalità all’epoca era assai meno chiara.

Come si è visto anche nel confronto Letta-Meloni, voi agitate sempre i fantasmi dell’Ungheria e della Polonia. Non crede che questo messaggio sia distante dai problemi quotidiani delle persone?

Non lo è. Perché i nodi legati al caro bollette e al lavoro sono collegati al posizionamento europeo dell’Italia. Se ti metti ai margini dell’Ue come l’Ungheria è più difficile gestire le emergenze insieme agli altri grandi paesi. Lo abbiamo sperimentato con strumenti come Sure, pensati per aiutare i lavoratori ai tempi del lockdown. L’Europa post-liberista è stata indispensabile per far fronte alla crisi economica dovuta al Covid. Il nazionalismo invece viene sempre pagato dai ceti più deboli. E non è un messaggio astratto perché le scelte di Polonia e Ungheria hanno inciso nelle libertà e quindi nella vita quotidiana di tante ragazze e ragazzi.

Meloni è accreditata di un forte consenso fuori dalle cosiddette ztl. Eppure propone di abolire il reddito di cittadinanza, è contraria al salario minimo. Dove sta la protezione sociale della destra?

La destra ha prosperato in questi anni sulle nostre ambiguità, sulla nostra timidezza nel rivendicare la lotta alla diseguaglianze. Ora il punto è recuperare questo gap. Se noi lo facciamo, emerge sempre più chiaramente che la destra sta dalla parte di chi ha di più, considera la povertà una colpa, non vuole riformare il mercato del lavoro o alzare i salari. Le ricette di Meloni coincidono con gli interessi consolidati della grande impresa e della rendita, e non con quelli dei lavoratori o della piccola impresa. Ma ha un merito: queste cose le dice chiaramente.

Eppure poi nelle urne la votano i poveri.

Quando la sinistra non riesce a proteggere le persone con lo stato sociale e la lotta alla diseguaglianze, ecco che la proposta nazionalista appare come uno scudo credibile, lo straniero o l’Europa diventano capri espiatori di un malessere sociale reale.

E tuttavia appena voi fate una proposta appena un poco di sinistra i grandi giornali vi bastonano. Dicono che siete ancora comunisti, come ha fatto Paolo Mieli in una recente intervista.

Quando ho letto quelle parole all’inizio ho sorriso. Ma è durato poco perché quelle parole sono il sintomo di una sottovalutazione,  assai diffusa nelle classi dirigenti. Si pensa che la domanda di radicalità e di riforme sociali che sta emergendo sia frutto di nostalgia per le ideologie del passato. Segno che si sottovalutano drammaticamente le emergenze sociali del presente e le conseguenze che possono avere sulla democrazia. Per questo è tempo di rivedere il modello di sviluppo, curarne le distorsioni, anche di ipotizzare una partecipazione dei lavoratori alle grandi scelte delle imprese.

Con Letta segretario l’accusa di essere «eredi della rivoluzione d’ottobre» è ancora più surreale.

Diciamo che il suo profilo non è esattamente sovrapponibile a quello di Lenin.

Perché un quarantenne precario da 15 anni stavolta dovrebbe fidarsi di voi?

Perché il Pd dal 2019 sta seguendo una linea chiara. Entrando nel governo Draghi come ministro del Lavoro il mio obiettivo era evitare passi indietro. E invece, anche se il Pd aveva solo l’11% dei parlamentari, abbiamo fatto dei passi avanti concreti, sui lavoratori delle piattaforme, sui subappalti, sul contrasto al caporalato e sulla parità salariale uomo-donna. Mentre la destra è sempre dall’altra parte, dalle delocalizzazioni al salario minimo.

Veniamo al Jobs act. In concreto come vorreste modificarlo? Il modello spagnolo citato nel vostro programma riduce i contratti a termine.

Per noi quello è un modello. L’obiettivo è rendere il lavoro a tempo determinato una eccezione, e rendere meno costoso il lavoro stabile. Di questa necessità è consapevole anche la parte più avanzata del mondo delle imprese. Bisogna investire sul capitale umano e alzare i salari anche per evitare la fuga dei lavoratori all’estero: non parlo solo di solo di ricercatori, ma anche di studenti e operai. È a rischio la struttura produttiva del paese.

Conte sostiene di aver già riformato il mercato del lavoro con il decreto Dignità.

Quel decreto, nonostante le buone intenzioni, non ha risolto il problema e ha determinato una serie di effetti negativi collaterali. A Conte dico: evitiamo la competizione sulle primogeniture. Una riforma del mercato del lavoro si fa solo con un ampio fronte di forze politiche e sociali, come è successo in Spagna. Serve un nuovo statuto del lavoro, non un decreto.

Volete reintrodurre l’articolo 18?

C’è un obbligo a intervenire su alcuni aspetti dopo alcune sentenze della corte costituzionale che esortato in questo senso il Parlamento. Noi ci impegniamo a rivedere complessivamente le tutele contro l’ingiusto licenziamento.

Lei ha riproposto il campo largo con M5S dopo il voto. Ma Conte ha risposto in modo gelido.

Senza una vittoria del Pd non ci sarà nessun campo, né largo né stretto. Sarà ineluttabile il dialogo tra tutte le forze che non si riconoscono nel campo della destra estrema. La risposta di Conte, purtroppo, è rivelatrice delle ragioni e dello spirito che hanno condotto alla rottura.

Che succederebbe al Pd dopo una sconfitta? Rischia un’altra scissione?

Una vittoria dell’estrema destra sarebbe una sciagura che potrebbe cambiare i connotati della democrazia italiana. E non si risponde a una cosa del genere semplicemente cambiando segretario. Anzi, servirebbe qualcuno in grado di guidare una discussione profonda in un passaggio difficile. Letta ha garantito di avere il profilo unitario. Credo anche che una ulteriore scissione servirebbe solo a rendere più grave la situazione. Di fronte a una vittoria delle destre servirebbero risposte all’altezza, non lo spostamento di pezzi di classi dirigenti.