I volontari aspettano il treno sulla banchina. In mano buste con acqua, succhi di frutta e una manciata di snack. Sono loro il primo contatto con l’Europa per i profughi che scappano dalle bombe sull’Ucraina, mentre il governo Orbán prova a ignorare l’emergenza.

Alla stazione di Zahony in Ungheria tutto è gestito da personale volontario. I treni arrivano da Chop, regione ucraina della Transcarpazia. Partono quando sono pieni, fanno scendere il loro carico di anziani, donne e bambini, prima di tornare indietro per prepararsi a un altro viaggio. Sono almeno 5mila le persone che ogni giorno transitano per questo piccolo villaggio di frontiera, prima di andare a Budapest.

A un primo sguardo, l’organizzazione sembra perfetta. I volontari preparano pasti caldi, hanno allestito un punto medico e una ludoteca per i più piccoli. «Ma qui abbiamo organizzato tutto da soli, nessuno ci ha dato una mano», dice Agnes, una delle volontarie che lavorano in cucina, lamentando «l’atteggiamento ambiguo» del governo di Viktor Orbán.

«Tra ungheresi e ucraini, in particolare quelli della regione della Transcarpazia, il legame è forte – spiega Agnes – Molte famiglie vivono a cavallo di queste due regioni, lì abbiamo parenti e amici. Se il governo non vuole intervenire non fa niente, noi non possiamo stare fermi».

Zahony, villaggio rurale con poco più di 4mila abitanti, è solo a gestire l’emergenza. Il sindaco coordina in prima persona gli aiuti, ma da Budapest non arriva nessun supporto. «Sono di una lista civica indipendente, qui Orbán non prende tanti voti», commenta con un sorriso ironico. E con le elezioni che si avvicinano, la nuova ondata migratoria rischia di mettere in difficoltà la popolarità del premier ungherese.

Ma a pagare il costo delle scelte di Orbán sono i profughi ucraini. Nel punto medico della stazione non c’è la Croce rossa, ma solo dei volontari. «Facciamo quello che possiamo con quel poco che abbiamo. Servirebbero medicine diverse, soprattutto pediatriche, ma dobbiamo farcela con quello che ci arriva dalle donazioni», dice Edit, che per 12 ore al giorno tiene aperta la porta di un ambulatorio improvvisato.

Davanti la sua stanza, dei rappresentanti di una compagnia telefonica distribuiscono gratuitamente schede sim e piccoli cellulari. Ma fare foto non è possibile. «La nostra azienda ha deciso di dare una mano – spiega Gyorgy – ma non vogliamo che si diffonda troppo la voce. Qui in Ungheria non a tutti piace quello che stiamo facendo».

Oltre che con la polizia, il governo di Budapest è presente anche con dei rappresentanti dell’Alto commissariato per i rifugiati. «Ma non sono in grado di dirci nulla», si lamenta Paul, studente nigeriano scappato dai bombardamenti su Sumy con i corridoi umanitari.

«Sappiamo solo di dover andare nella capitale con il treno, ma dopo?». E se si prova a chiedere spiegazioni, la risposta è semplice: «Non siamo autorizzati a rispondere a nessun tipo di domanda, per quelle bisogna mandare una mail al ministero dell’Interno».

La grande presenza di volontari che regge il sistema di accoglienza non riesce a rimediare all’inazione del governo di Budapest. «Servirebbe personale qualificato, soprattutto medici e psicologi per i bambini», spiega il responsabile di un tendone riscaldato che contiene anche una cuvina in grado di preparare 5mila pasti caldi al giorno.

Ma a preoccupare sono soprattutto le pratiche per la registrazione dei rifugiati. «Le organizzazioni che sono presenti lavorano senza protocolli prestabiliti. Vediamo persone arrivare, anche con i pulmini, per prendere i profughi e portarli chissà dove. In questo modo, senza nessun tipo di controllo, il rischio è quello di favorire la tratta di esseri umani, già fortemente presente in questa zona».

C’è poi un altro problema che gli ucraini che scappano in Ungheria devono affrontare. Le leggi ungheresi vietano di richiedere asilo una volta arrivati nel paese. Per fronteggiare l’emergenza, Orbán ha deciso di concedere una deroga, accordando lo status di “protezione temporanea” a chi scappa dalla guerra.

«Ma questo status è diverso da quello da rifugiato e non garantisce gli stessi diritti – spiega il volontario – La durata della protezione è limitata all’emergenza Covid, e chi ha questo status non può lavorare né studiare».

Intanto, a Zahony i treni continuano ad arrivare. Il lavoro dei volontari continua instancabile. E Budapest non è mai stata così lontana.