C’è il silenzio della Storia e c’è quello che, sotterraneo, s’insinua fra le pareti domestiche, lasciando inevase molte domande, forse anche inascoltate. È così che nel suo lavoro Are There Trees Back in Berlin? Martina Zaninelli ha cercato di colmare alcune «assenze di memoria» seguendo le tracce di suo nonno, che partì volontario per le campagne militari delle Waffen-SS attraverso l’Europa centrale e orientale. Il risultato è una mappa dei luoghi del ritorno a casa, costellato – ancora una volta – di molti vuoti.

Per la nona edizione di Castelnuovo Fotografia, l’artista ha portato in Italia il suo progetto Brotherland (lei è di Bolzano, ma vive e lavora a Berlino), che sta mettendo a punto tassello dopo tassello in collaborazione con Thomas Jacobs. La mostra – visitabile nel prossimo week end quando la rassegna riaprirà i battenti (ci sarà anche il talk con Joan Fontcuberta) – è a cura di Michela Becchis.

Come si può descrivere «Brotherland»?
È un progetto in corso, non ancora finito. Al suo interno segue due filoni concettuali. Da un lato, c’è un pezzo di storia mancante ed è quello che riguarda il periodo subito dopo la caduta del Muro di Berlino. La reazione collettiva è stata interessante. In virtù di quell’evento, in Germania si immaginò che da lì in poi tutto sarebbe andato bene, anche in futuro. Naturalmente non fu così. E dall’altro lato, si indaga su fatti come l’attacco neonazista di Hanau (nel febbraio 2020) dove morirono nove persone e dove riprese la narrazione condivisa del «caso isolato». In quei giorni, iniziò a circolare anche un hashtag per creare attenzione. Risalendo ad altri avvenimenti sono tornata indietro per studiare i primi casi di violenza neonazista verificatisi nella «nuova» Germania. Il primo omicidio per mano neonazista risale al 7 ottobre 1990, proprio a ridosso della riunificazione. In mostra portiamo la storia di Amadeu Antonio Kiowa. Arrivato dall’Angola nella Ddr nel 1987 come Vertragsarbeiter (lavoratore straniero ospite), fu picchiato brutalmente nella notte tra il 24 e il 25 novembre 1990 e morì per le ferite riportate il 6 dicembre a Eberswalde, a 50 km da Berlino. Suo figlio nacque mentre riportavano il corpo con un aereo in Africa.

La sua formazione di storica riaffiora…
Certamente è presente nel mio modo di affrontare la costruzione fotografica. Lo faccio attraverso una ricerca che procede in archivio, ricorrendo alle fonti di primo livello che, in questo frangente, sono le vittime. Conta però anche la mia formazione politica: sono impegnata nell’attivismo antifascista.

Martina Zaninelli; foto di Matilde Cenci

In questo procedere, si riconsegna alla fotografia un valore documentale, ma va ricordato che le immagini possono essere ingannevoli, rientrare in una cornice di manipolazione. Cosa ne pensa?
La fotografia è sempre una narrazione. Le immagini della caduta del muro di Berlino con la folla in festa, felice, rappresenta come quell’evento storico è stato raccontato. Parto da qui per arrivare a una contronarrazione di quelle stesse immagini: la storia che scorre in quei frames è fittizia. Sicuramente, la caduta del Muro per alcune persone è stata liberatoria, ma per altre ha significato la perdita di una prospettiva sociale e politica, la condanna di una vita condotta fino a quel momento, la chiusura di molte fabbriche, la disoccupazione. E tutto ciò è rimasto nell’oscurità. La fotografia come verità non esiste: non si può partire da qui per imbastire un discorso storico.

«Brotherland» focalizza l’interesse su quel cono d’ombra, sul «non detto»…
Thomas Jacobs, con cui sto lavorando al progetto, l’ha vissuta in persona quella caduta. Aveva 15/16 anni. Una parte delle interviste e i racconti degli Vertragsarbeiter sono raccolti da lui. Io invece mi avvicino a quell’immaginario da esterna. Parlo il tedesco come seconda lingua e sono cresciuta bilingue, cosa che mi permette di avere accesso. La scintilla per me si è accesa nel momento in cui ho scoperto un aspetto della storia tedesca legato ai Vertragsarbeiter: le folle nell’ex Germania dell’est che applaudivano i neonazisti mentre lanciavano sassi e molotov verso le case. Molti giovani dei quartieri hanno partecipato a questi movimenti di massa pur senza connotazioni politiche particolari. È stato uno shock.

Ci può spiegare meglio il titolo del progetto?
Brotherland viene dall’idea dei paesi fratelli nel senso socialista. Per Vietnam, Cuba, Mozambico e Angola la Ddr era proprio questo, un paese dove poter coltivare l’aspettativa di essere accolti come accade in una grande famiglia. Ma le cose sono andate diversamente. Non solo serpeggiava il movimento neonazista culminato nel 1990, ma c’è stato il reimpatrio, quasi forzato, dei lavoratori. Il mio progetto parla molto di sogni infranti, dal socialismo agognato dei Vertragsarbeiter ai cittadini della Ddr che pensavano di poter accedere al capitalismo, ma alla fine sono stati trascinati fuori dalla loro vita. Sogni infranti anche nel senso che tutti gli avvenimenti sono accaduti in città e quartieri costruiti come luoghi simbolici e utopici del socialismo. Questa narrazione è permanente, sia a livello macropolitico che di immaginario.

Come si è arrivati al racconto che vediamo scorrere in «Brotherland»?
Tramite un altro progetto a cui ho lavorato per due anni e mezzo che ho perduto con la cancellazione della memoria esterna. Affrontavo il tema della dittatura dei colonnelli in Grecia e il collegamento con il partito di Alba Dorata, La scomparsa del materiale nel salvare i documenti e poi lo stop della pandemia hanno fatto sì che mi arenassi. Alla fine, ho trovato per la prima volta un tema che davvero mi appassionava nella città in cui vivevo. Il nodo reale di Brotherland è: come si può spiegare che due-tremila cittadini tedeschi dell’ex Ddr siano stati dalla parte di chi cercava il morto, lanciando molotov dentro le case?

Quale esperienza avete messo in campo per seguire il filo delle testimonianze?
Jacobs si è dedicato alla parte scritta conducendo le interviste. Io mi sono occupata di più della parte fotografica, materiali d’archivio e immagini d’epoca. Abbiamo cercato di raccontare come alcuni media incitarono all’odio, soprattutto Der Spiegel e Bild. Abbiamo incontrato molte persone eraccolto i loro vissuti. Il figlio di Amadeu Antonio Kiowa (la sua compagna era incinta quando morì) si è sottratto a questo ruolo. Sono intervenuti invece amici e colleghi. Come ho detto all’inizio, il progetto è in fieri, ci manca ancora la comunità vietnamita. Poi toccherà ai cittadini tedeschi. Ci interessa comprendere le ragioni di chi pur abitando vicino ai luoghi dove si sono verificate le violenze – persone che non necessariamente furono attive – rimase indifferente.

Questo lavoro dialoga con il tema del festival «Il paesaggio del futuro»?
Il futuro non è così florido in Germania, basti vedere le elezioni della settimana scorsa. L’estrema destra ha preso il 33,4% con Afd nel distretto elettorale di Bautzen in cui è inclusa anche Hoyerswerda dove sono avvenuti gli attacchi xenofobi fin dal 1991. Il futuro è posto in dialogo perché attraverso un fallimento del passato – quel «come» ci si era immaginati la riunificazione – bisognerà imparare a ricucire insieme altri fatti del presente, abbandonando la lettura «del caso isolato». Si deve poter accettare che esiste una continuità.

IL DIALOGO FRA PRESENTE E PASSATO

Martina Zaninelli, nata a Bolzano, dopo una laurea in Storia presso La Sapienza di Roma ha iniziato a lavorare professionalmente con il mezzo fotografico, partecipando a corsi e workshop tra l’altro con Lisa Barnard, Federico Clavarino, Andrea Grutzner e Mauro Bedoni. A Berlino ha frequentato la Ostkreuzschule für Fotografe. I suoi lavori sono stati esposti internazionalmente e il suo libro «Are there trees back in Berlin?» è stato selezionato per vari festival e premi. Con i suoi lavori cerca di creare un’interazione tra immagini d’archivio, documenti e i suoi contenuti fotografci. Il suo operare pone sotto i riflettori storie collettive e di individui colpiti da eventi travolgenti, che si ripercuotono sulla nostra percezione della contemporaneità, provocando un dialogo costante tra presente e passato. Attualmente vive e lavora a Berlino.