«Dopo settimane di intensi colloqui, siamo più vicini che mai a un accordo…però nulla è concordato finché tutto non è concordato». L’ottimismo a metà espresso due giorni fa da Ali Bagheri, il capo dei negoziatori di Tehran ai colloqui di Vienna per il rilancio del Jcpoa, l’accordo del 2015 sul programma nucleare iraniano, ha trovato una conferma da parte statunitense. Un anonimo funzionario del dipartimento di Stato citato dalla stampa Usa ha dichiarato che «nell’ultima settimana ci sono stati progressi sostanziali». Ha poi aggiunto che «se l’Iran si impegnerà seriamente potremmo e dovremmo raggiungere un’intesa per il ritorno reciproco (di Usa e Iran, ndr) all’accordo Jcpoa nei prossimi giorni». L’Amministrazione Biden lancia la palla nella metà campo iraniana. Washington nei giorni scorsi ha anche avvertito che il tempo a disposizione per le trattative sta per scadere. E ha posto un «prendere o lasciare» all’Iran, invitato ad accettare subito la bozza di intesa che circola da qualche ora, frutto di un compromesso raggiunto dagli Usa con i partner del Consiglio di Sicurezza dell’Onu più la Germania.

La bozza, lunga venti pagine e diffusa in parte dalla Reuters, prevede una serie di passaggi. Il primo non include deroghe alle sanzioni petrolifere che colpiscono l’Iran, anche se l’obiettivo generale è quello di tornare alla revoca delle misure punitive contro Tehran previste dal Jcpoa firmato nel 2015 in cambio di restrizioni alle attività nucleari iraniane. In particolare, l’arricchimento dell’uranio fissato dall’accordo del 2015 al 3,67%. La Repubblica islamica dopo l’uscita immotivata degli Usa dall’accordo nel 2018 (per decisione dell’ex presidente Trump) ha cominciato ad arricchire l’uranio verso soglie sempre più alte, fino al 60%, percentuale vicina a quella che consente la produzione di ordigni atomici. L’Iran insiste che i suoi obiettivi sono del tutto pacifici e che vuole usare la tecnologia nucleare solo per usi civili. Le potenze occidentali replicano che nessun altro Stato ha arricchito l’uranio a un livello così alto senza poi sviluppare armi nucleari. Uno che l’ha fatto, senza mai incorrere in sanzioni, è Israele che, in segreto, secondo esperti internazionali e le rivelazioni fatte nel 1986 dal tecnico della centrale di Dimona, Mordechai Vanunu, avrebbe assemblato tra 100 e 200 testate atomiche.

La nuova intesa prevederebbe un limite all’arricchimento da parte dell’Iran al 5%. Tehran, che ha sempre insistito affinché qualsiasi rilancio del Jcpoa passi obbligatoriamente per la fine di tutte le sanzioni, non otterrebbe subito la sospensione delle misure che paralizzano la sua economia. Avrà invece lo sblocco di circa sette miliardi di dollari iraniani congelati in banche sudcoreane a causa delle sanzioni statunitensi (sono circa cento i miliardi di dollari iraniani bloccati in banche di vari paesi). Ma prima Tehran dovrà rilasciare alcuni occidentali chiusi nelle sue prigioni, un punto sul quale insiste il negoziatore capo degli Stati Uniti, Robert Malley. Solo dopo si andrà al cosiddetto «Re-Implementation Day», ossia alla ripresa dell’accordo originale del 2015 e alla fine delle sanzioni. Tuttavia, gli Stati Uniti concederanno solo deroghe – da 90 a 120 giorni – alle sanzioni sul settore petrolifero iraniano piuttosto che revocarle a titolo definitivo. Questo non piace a Tehran che chiede garanzie agli Usa che non si ritireranno più dal Jcpoa. Secondo la Reuters, la leadership iraniana potrebbe accontentarsi dell’assicurazione che in caso di violazione del patto da parte degli Stati Uniti, l’Iran potrà tornare ad arricchire nuovamente l’uranio fino al 60%.