Il movimento Non una di Meno si prepara allo sciopero globale dell’8 marzo: con lo stesso simbolo in oltre 40 paesi dei cinque continenti. Un movimento forte, e numericamente consistente. Prima in Polonia e poi in Argentina, le donne hanno dato il «la», gridando: basta femminicidi, «se la nostra vita non vale, allora ci fermiamo». Il 26 novembre a Roma hanno sfilato oltre 200.000 persone. Ni una menos ha riempito le strade argentine e la Plaza del Congreso.

IL 21 GENNAIO scorso, dopo l’elezione di Trump negli Stati uniti, una manifestazione – replicata in tutto il mondo – ha portato in piazza a Washington almeno 500.000 persone. A prepararla, Women’s March, un’organizzazione orizzontale che si è mobilitata per i diritti delle donne, dei migranti senza documenti, delle persone Lgbtq e dei lavoratori poveri. Dopo il successo dell’iniziativa, il 14 febbraio scorso, il movimento ha rilanciato sulle reti sociali l’idea di «una giornata senza le donne» anche negli Stati uniti, per il prossimo 8 marzo.

GLI ANTECEDENTI ci sono, e provengono dal secolo scorso: il secolo delle rivoluzioni, delle indipendenze e del femminismo. Il secolo in cui la lotta per la libertà delle donne si è intrecciata a quella per la libertà dal capitalismo e dal colonialismo. Un obiettivo che torna fortemente anche nello sciopero globale di questo 8 marzo.

IL 24 OTTOBRE del 1975, l’idea è stata lanciata in Islanda e ha raccolto l’adesione del 95% delle donne: astenersi da ogni attività per denunciare il doppio lavoro compiuto ogni giorno, per un imprenditore o a casa. In quegli anni, il Movimento di liberazione delle donne era molto forte, sia in Europa che in Nordamerica. La proposta di un piccolo gruppo radicale, quello delle Red sokkana, ebbe subito presa, oltre ogni aspettativa. Com’è accaduto ora. L’isola dell’Europa settentrionale allora contava un po’ più di 200.000 persone (oggi ne conta oltre 320.000). Circa 30.000 donne sfilarono nella capitale Reykjavik.

GLI ARCHIVI storici del movimento femminista riportano le testimonianze di giovanissime dirigenti del sindacato delle lavoratrici senza qualifica, il meno pagato. «Gli uomini governano il mondo dalla notte dei tempi, e a cosa assomiglia quel mondo?» Un venerdì nero, quello, per i maschi – ironizzarono le donne osservando i padri «sfiniti», i proprietari dei supermercati e i direttori di banche obbligati a stare alle casse per tenere aperto…
Vigdis Finnbogadottir, madre single e divorziata, quando, nel 1980, verrà eletta presidente, dirà che senza quel 25 ottobre non sarebbe mai arrivata a essere «la prima donna presidente eletta democraticamente al mondo». Ma se pure in Islanda le donne sono il 44% in Parlamento, a parità di lavoro continuano a percepire solo il 64% circa del salario degli uomini. E molta polvere cova sotto il tappeto dell’isola che sembrava dover portare al governo il Partito Pirata, e invece è tornata ai conservatori, e resta sempre membro fondatore della Nato (pur essendo l’unico senza Forze armate).

LA NUOVA ondata di destra che sta dilagando in Europa e che rischia di far breccia anche in Olanda alle elezioni del prossimo 15 marzo, mostra il ritorno del sessismo più arcaico, proprio in un momento storico in cui il patriarcato è invece più in crisi. Le disuguaglianze nei luoghi di lavoro permangono. L’Istat lo ha confermato in questi giorni per l’Italia: aumenta la distanza fra occupati maschi e femmine: di circa il 20%. L’occupazione maschile è in crescita (al 67%), quella femminile è in calo (al 48,1%).

UNA TENDENZA che si registra anchenel giornalismo. Nell’arco del 2016, le donne hanno guadagnato in media 52.158 euro, i colleghi 66.092 euro. La forbice si alza con l’età, ma si riduce notevolmente per le più giovani. Nel movimento Non una di meno, il tema del sessismo nell’informazione e nella narrazione mediatica è stato discusso in uno degli 8 tavoli, così come quello della distribuzione del potere fra i generi e nelle carriere accademiche. «Nonostante sia luogo di produzione di cultura “alta”, l’università italiana continua a essere attraversata da una cultura profondamente sessista che quotidianamente si esprime attraverso la violenza dei più retrivi stereotipi di genere», dice l’appello di lottomarzo, tettodicristallo@gmail.com.

DIVERSA la situazione in alcuni paesi dell’America latina: principalmente Cuba, ma anche il Venezuela, che ha una costituzione declinata nei due generi in cui si riconosce anche il valore sociale del lavoro domestico. L’America latina che si richiama al «socialismo del XXI secolo» ha volto di donna. A prendere il centro della scena sono le ultime della catena: indigene, contadine, afrodiscendenti. Donne che pagano sovente un caro prezzo, vittime della violenza di genere e dei femminicidi politici.

UN ANNO FA è stata uccisa in Honduras l’ambientalista femminista Berta Caceres. In questi giorni è stata ammazzata in Colombia la dirigente indigena Alicia Lopez Guisao, promotrice del progetto Cumbre Agraria e Gobierno Nacional. L’hanno uccisa due uomini armati, probabilmente paramilitari al soldo delle grandi imprese che devastano i territori indigeni. Si batteva per l’applicazione degli accordi di pace firmati dal governo con la guerriglia marxista Farc. Le donne colombiane e venezuelane hanno organizzato a Caracas un grande incontro per la pace per chiedere il rispetto degli accordi. Durante i due primi mesi del 2017, in Colombia, sono stati uccisi 20 leader sociali, sei erano donne