La Convenzione Internazionale Onu sulla soppressione e la punizione del crimine di apartheid definisce l’apartheid un crimine che comporta «atti disumani commessi al fine di stabilire e mantenere il dominio di un gruppo razziale su ogni altro e la sua sistematica oppressione». Lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale parla di «un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e di dominio di un gruppo razziale su qualsiasi altro gruppo razziale».

Pur riconoscendo l’importanza del diritto internazionale, è necessario notarne i limiti. Una specifica preoccupazione riguarda la definizione internazionale di apartheid. Focalizzarsi solo sul regime politico non fornisce basi forti per la critica degli aspetti economici e apre la strada a un futuro di post-apartheid in cui dilaga la discriminazione economica.

NEGLI ANNI ’70 E ’80, i neri sudafricani furono impegnati in urgenti dibattiti su come intendere il regime di apartheid che combattevano. Il blocco più potente all’interno del movimento di liberazione – l’African national congress (Anc) – riteneva che l’apartheid fosse un sistema di dominio razziale e che la lotta dovesse incentrarsi sull’eliminazione delle politiche razziste e sulla richiesta di uguaglianza di fronte alla legge. I neri radicali rigettavano questa analisi. Il dialogo tra il Black Consciousness Movement e i marxisti indipendenti diede vita a una definizione alternativa di apartheid, intesa come sistema di «capitalismo razziale». La lotta avrebbe dovuto confrontare simultaneamente lo Stato e il sistema capitalista razziale o, dicevano, il Sudafrica del post-apartheid sarebbe rimasto diviso e ineguale. La transizione degli ultimi 20 anni ha dato sostegno a questa tesi. Nel 1994 l’apartheid legale è stata abolita e i neri sudafricani hanno ottenuto uguaglianza di fronte alle legge: diritto di voto, diritto a vivere ovunque, diritto di movimento senza permessi.

Ma nonostante la democratizzazione dello Stato, la transizione sudafricana non ha affrontato le strutture del capitalismo razziale.

Durante i negoziati, l’Anc ha fatto importanti concessioni per ottenere il sostegno dei bianchi sudafricani e l’élite capitalista. Ha accettato di non nazionalizzare terre, banche e miniere e ha riconosciuto protezione costituzionale all’esistente distribuzione della proprietà privata, nonostante la storia di espropriazione coloniale. Ha adottato una strategia economica neoliberista promuovendo libero mercato, industria orientata all’export e privatizzazione degli affari dello Stato. Come risultato, il Sudafrica post-apartheid rimane uno dei paesi più diseguali al mondo.

LA RISTRUTTURAZIONE neoliberista ha condotto all’emersione di una piccola élite nera e una crescente classe media nera in alcune parti del paese. La vecchia élite bianca controlla ancora la stragrande maggioranza di terre e ricchezze.

La deindustrializzazione e la crescente porzione di popolazione costretta a lavori casuali hanno indebolito il movimento dei lavoratori, intensificato lo sfruttamento della classe operaia nera e prodotto un crescente surplus razziale di popolazione che vive in una disoccupazione permanente e strutturale.

Il tasso di disoccupazione raggiunge il 35%, includendo chi si è arreso e non cerca più lavoro. In alcune aree supera il 60% e i posti di lavoro disponibili sono precari, a termine e con salari bassi. I neri poveri si trovano di fronte anche alla mancanza di terre e case. Invece di redistribuire la terra, il governo dell’Anc ha adottato un programma basato sul mercato: lo Stato aiuta i clienti neri ad acquistare terra di proprietà dei bianchi. Questo ha fatto crescere una piccola classe di proprietari neri ricchi, ma solo il 7,5% delle terre sudafricane è stato redistribuito.

Allo stesso modo, il costo crescente delle case ha moltiplicato il numero di persone che vive in baracche, edifici occupati e insediamenti informali, nonostante i sussidi statali e le garanzie costituzionali ad un’abitazione dignitosa.

LA RAZZA CONTINUA A DEFINIRE l’accesso diseguale a casa, educazione e lavoro nel Sudafrica post-apartheid. E determina la rapida crescita di security privata, l’industria con lo sviluppo più veloce dopo gli anni ’90. Le compagnie di sicurezza privata e le associazioni dei residenti benestanti hanno trasformato i sobborghi storicamente bianchi in comunità fortificate, con muri lungo le proprietà private, cancellate intorno ai quartieri, ronde, sistemi d’allarme e team armati per la risposta rapida.

Secondo il diritto internazionale, l’apartheid termina con la trasformazione dello Stato razziale e l’eliminazione della discriminazione razziale legalizzata. Eppure anche un esame superficiale del Sudafrica dopo il 1994 rivela le insidie di tale approccio e l’importanza di un ripensamento della definizione di apartheid. L’uguaglianza legale formale non ha prodotto una reale trasformazione sociale ed economica. Al contrario, il neoliberismo del capitalismo razziale ha consolidato la diseguaglianza creata da secoli di colonizzazione e apartheid.

In una parola, l’apartheid non è finita, è stata ristrutturata. Fare riferimento esclusivamente alla definizione legale internazionale di apartheid potrebbe condurre a problemi simili in Palestina.

GUARDARE ALL’APARTHEID attraverso queste lenti permette di capire che il colonialismo di insediamento israeliano opera oggi tramite il capitalismo razziale neoliberista. Negli ultimi 25 anni Israele ha intensificato il progetto coloniale di insediamento sotto le spoglie della pace. Oslo ha reso Israele in grado di frammentare ulteriormente i Territori Occupati e di integrare il dominio militare diretto con aspetti di dominio indiretto. La Striscia di Gaza è stata trasformata in un «campo di concentramento» e in un modello di «riserva per nativi» attraverso un assedio mortale e medievale descritto da Richard Falk come «preludio al genocidio» e da Ilan Pappe come un «genocidio incrementale». In Cisgiordania la strategia neocoloniale israeliana prevede la concentrazione della popolazione palestinese nelle aree A e B e la colonizzazione dell’Area C.

La riorganizzazione del dominio israeliano si è realizzata insieme alla ristrutturazione neoliberista dell’economia. Dagli anni ’80, Israele è passato da un’economia guidata dallo Stato e focalizzata sul consumo interno a un’economia guidata dalle corporazioni e integrata nei circuiti del capitale globale. Tale ristrutturazione ha generato immensi profitti privati mentre si smantellava il welfare, si indeboliva il movimento dei lavoratori e si aumentavano le diseguaglianze. Riducendo di molto la necessità di forza lavoro palestinese.

LA VITA DELLA CLASSE OPERAIA palestinese è diventata via via più precaria. Con accesso limitato al mercato del lavoro in Israele, povertà e disoccupazione si sono moltiplicate. Sebbene l’Autorità palestinese (Anp) abbia sempre sostenuto una visione neoliberista dell’economia guidata dal settore privato, rivolta all’export e al libero mercato, ha dapprima risposto alla crisi creando migliaia di posti di lavoro pubblici.

Dal 2007, tuttavia, l’Anp segue un duro programma economico neoliberista che punta al taglio dei posti di lavoro nel pubblico e all’espansione del settore di investimento privato. Ma il settore privato è rimasto debole e frammentato e le politiche neoliberiste hanno ulteriormente peggiorato le condizioni di vita della classe bassa palestinese, contribuendo alla crescita di una piccola élite nei Territori Occupati composta dalla leadership dell’Anp, capitalisti palestinesi e funzionari delle ong. Chi visita Ramallah resta sorpreso nel vedere ville, palazzi, ristoranti di lusso, hotel a 5 stelle. Non sono i segni di un’economia prospera ma della crescente divisione di classe.

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Un tunnel clandestino tra Gaza e l’Egitto (foto Ap)

Allo stesso modo una nuova borghesia affiliata a Hamas è emersa a Gaza dal 2006. Il suo benessere dipende dalla calante «industria dei tunnel», il monopolio dei materiali di costruzione contrabbandati dall’Egitto e dei pochi beni importati da Israele.

IL NEOLIBERISMO insieme al progetto di colonialismo di insediamento ha tramutato i palestinesi in popolazione usa e getta. Ne I dannati della terra, Frantz Fanon avverte dell’insidia di un movimento di liberazione che termina con uno Stato indipendente governato da un’élite nazionale che imita il potere coloniale. Muoversi dall’indipendenza politica alla trasformazione sociale e la decolonizzazione è la sfida che oggi affronta il Sudafrica del post-apartheid. Evitare questa trappola è la sfida di fronte al movimento di liberazione palestinese.

* Docente di Letteratura postcoloniale e postmoderna all’università al Aqsa di Gaza

** Docente di Sociologia e Studi african american e direttore dell’Istituto di giustizia sociale dell’Università dell’Illinois a Chicago

La versione integrale originale di questo articolo è stata pubblicata dal network Al Shabaka ed è disponibile qui in lingua inglese