Se c’è un filo rosso che tiene assieme il ritorno dei vecchi poteri in Asia – dallo Sri Lanka al Pakistan, dalle Filippine al Myanmar – il suo nome è dinastia.

UN FENOMENO che coniuga il potere economico finanziario alla rete di legami familistici e di classe che nei secoli hanno dominato il presidio del potere, dando luogo a un «marchio» inventato ai tempi del dittatore Ferdinando Marcos per descriverne il dominio sull’economia; crony capitalism, o capitalismo delle parentele. È un sistema in cui le imprese prosperano non come risultato della libera concorrenza ma grazie a un’economia frutto della collusione tra imprenditori e politici e in cui la rete delle famiglie diventa paradigma.

QUESTO SISTEMA non è stato una realtà solo per le destre, di cui Ferdinando Marcos senior e Suharto furono i migliori interpreti, ma anche per la sinistre, se si pensa ai Bhutto in Pakistan o ai Nehru-Gandhi in India. In molti Paesi questa tradizione dinastica si è fortunatamente spezzata, come nell’Indonesia di Jokowi e in parte anche nell’India di Modi.

Non in Pakistan, dove sono tornati i Bhutto e gli Sharif in una riedizione aggiornata che mette assieme destra e sinistra per cacciare il premier popolar-populista Imran Khan, amato dalle folle come campione di cricket ma anche come l’uomo nuovo che aveva rotto gli schemi dei grandi potentati. Il ritorno al vecchio schema torna con forza nelle Filippine dove lì pure si è realizzato un potente sodalizio tra le due famiglie Marcos-Duterte che hanno presentato Ferdinando Marcos jr e Sara Duterte alle presidenziali.

Mentre si può dire che la fortuna dei Duterte è tanto recente (e in forte crescita) quanto la loro presenza sulla scena politica, quella dei Marcos (la cui famiglia era stata esiliata dalla cosiddetta People Power Revolution del 1986 senza troppo intaccare il reticolo del business di famiglia) si è solo rafforzata da che alla famiglia nel 1991 è stato permesso tornare e a Marcos jr di candidarsi.

IL CASO SRI LANKA è a sé. Vi comanda da decenni la famiglia Rajapaksa che si è sempre scambiata il potere con destrezza. Quando Mahinda era presidente, Gotabaya era il suo ministro della Difesa. Con Gotabaya presidente, Mahinda ha fatto il premier prima di dimettersi lunedi davanti a una piazza infuriata e a una battaglia nelle strade innescata dai suoi thug (milizie più che semplici sostenitori).

La scelta di ieri di Gotabaya, cui il buon senso suggerirebbe le dimissioni, è stata quella di affidare all’esercito la gestione del presente, ossia la repressione di un movimento per contenere il quale non sono bastate le milizie di Mahinda che hanno fatto chiudere la giornata di lunedi con un bilancio di sette morti e 200 feriti.

E QUI SALTANO FUORI altri due elementi importanti che, assieme alla forza delle dinastie famigliari, regolano gli affari di gran parte dei Paesi asiatici: milizie ed eserciti. Giocano ruoli diversi: il proliferare di milizie, in Indonesia aveva contagiato anche i partiti dell’opposizione alla dittatura di Suharto, creando una forza di servizio in molti casi in grado di scatenare micro conflitti.

L’esercito è invece una forza dinastica a se stante, dove la clientela passa attraverso i gradi militari. È il modello del Pakistan, dove ha sempre giocato un ruolo rilevante anche in economia, o del Myanmar, dove l’economia è totale ostaggio degli uomini in divisa. Il Tatmadaw – l’esercito nazionale – è un dominus incontrastato che è stato in grado di battere con facilità la fragile dinastia da cui proviene Aung San Suu Kyi, pur se – in quest’ultimo caso – abbiamo visto emergere un movimento di opposizione così resistente da essersi in parte saldato a milizie che sono però strutturate come veri e propri eserciti regionali che fanno capo alle autonomie etniche.

Gli esempi sulla persistenza delle reti dinastiche e famigliari possono continuare altrove guardando all’Asia centrale o persino all’Afghanistan dove però il movimento talebano è riuscito a rompere lo schema delle vecchie gerarchie di potere basato sui clan e le tribù che avevano ereditato l’egemonia della monarchia Durrani.

C’È DA CHIEDERSI cosa premia questa genia di dittatori mascherati che incarnano il mito del comando autoritario, violento e unilaterale. C’è forse una voglia di stabilità che premia l’immagine dell’autocrate ma anche l’illusione di una ricchezza garantita più che da solidi programmi di sviluppo dalla speranza, che Berlusconi seppe per esempio incarnare in Italia, del facile guadagno.

Non bastano i social media a spiegare il successo di Marcos jr né sappiamo se i suoi 30 milioni di voti – che hanno duplicato quelli ottenuti dalla rivale Leni Robredo – siano voti giovanili e non invece, almeno in parte, espressione anche di vecchie camarille, di voti comprati proprio grazie al denaro prodotto da quel crony capitalism di cui l’erede Marcos si candida a essere, dopo suo padre, il nuovo campione.