In queste settimane viene spesso citato il testo “La guerra non ha il volto di donna” (Bompiani, 2015) di Svetlana Aleksievic – scrittrice bielorussa, premio Nobel per la letteratura, perseguitata dal regime di Putin – per sostenere che le donne sono intrinsecamente contro la guerra.

Ebbi la fortuna di conoscere Aleksievic nei primi anni 2000 quando la invitai a tenere un incontro sulla sua produzione letteraria in un centro sociale di Napoli che si chiamava Damma. In quel testo, come in Ragazzi di Zinco (edizioni e/o, 2003), Aleksievic ci parla di donne che sono contro la guerra perché l’hanno vissuta sulla loro pelle e su quella delle persone che amavano, spesso i loro figli/e.

Sono donne ai margini del potere, a cui non è dato diritto di scelta, come non è stato dato ai loro congiunti mandati al fronte. Sono persone che subiscono le scelte del potere e non ne sono compartecipi. Quelle donne sì, in larga parte, sono contro la guerra.

Ma da qui a dire – come si fa diffusamente in questi giorni – che le donne siano contro la guerra e che se sedessero in quelle stanze del potere in cui si prendono le decisioni, questa non si farebbe, ce ne passa.

Mi sembra che ci siano diversi esempi a noi vicini che vanno infatti in altra direzione. Si pensi all’atteggiamento muscolare della vicepresidente dell’Ucraina, Iryna Vereshchuk, che ha mostrato un’inflessibile volontà di continuare il conflitto, così come alle molte donne che in Russia – in opposizione alle tante voci femminili e femministe russe dissidenti – sostengono la necessità e la giustezza del conflitto armato.

Marta Serafini su Il Corriere della Sera del 21 marzo pubblicava un’intervista con il caporale della legione straniera in Ucraina: secondo Damien Magru il 3% dei cosiddetti foreign fighters arrivati nel paese per combattere contro la Russia sarebbero donne.

Nella storia contemporanea donne di potere come Golda Meir, Margaret Thatcher, Condoleeza Rice, Hillary Clinton hanno sostenuto la necessità della guerra e della sua violenza.

Negli ultimi anni i movimenti conservatori in Europa hanno saputo esprimere una leadership femminile (si vedano figure come quelle di Marine Le Pen o Giorgia Meloni) che hanno sposato politiche a favore degli interventi armati e ferree logiche della contrapposizione noi/loro.

Non è tanto l’essere biologicamente donne che ci fa rifiutare la guerra, ma la posizione che abbiamo nella società, nel mondo, quando c’è una guerra

La questione del rapporto tra donne e guerra ha a che fare più con il rapporto tra potere e margini. Le donne nei margini, lontane dai centri del potere rifiutano (anche se non è necessariamente sempre così) la guerra. Non è tanto l’essere biologicamente donne che ci fa rifiutare la guerra, ma la posizione che abbiamo nella società, nel mondo, quando c’è una guerra. È il sentire da vicino sui nostri corpi la follia e l’orrore della guerra, in quanto prime vittime o in quanto vicine alle vittime.

Tra l’altro le donne non necessariamente rifiutano la violenza e la lotta armata in quanto elementi per combattere l’ingiustizia, la sopraffazione, la violenza. La storia è piena di donne che hanno partecipato a movimenti di resistenza e di liberazione. Dall’Europa al Nord Africa al Medio Oriente passando per le Americhe e l’Africa subsahariana abbiamo esempi di donne che hanno abbracciato la lotta armata come forma di resistenza antifascista, anticoloniale, antirazzista.

Credo che oggi più che dire che le donne sono contro la guerra, sarebbe giusto dire che il femminismo e meglio ancora un certo pensiero femminista è contro la guerra.

Il pensiero femminista come elaborazione di un discorso e una pratica dei margini del potere è contro la guerra, anche se in alcuni casi ha scelto di fare dei distinguo.

Ma c’è anche un certo tipo di femminismo, quello che Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya, Nancy Fraser nel libro Il femminismo per il 99%. Un manifesto (Laterza, 2019) chiamerebbero “il femminismo dell’1%”, che è parte delle pratiche di potere e ne condivide le idee, anche quelle che sostengono la necessità della guerra come mezzo per dirimere i conflitti.

In Il femminismo è per tutti, Bell Hooks afferma un concetto analogo quando dice: “Le donne bianche riformiste dotate di un privilegio di classe erano fin dall’inizio ben consapevoli che il potere e la libertà che volevano erano il potere e la libertà di cui vedevano godere gli uomini della loro classe” (Tamu, 2021, p.85).

Il sostegno o il contrasto alla guerra ha dunque a che fare con esercizi di potere e di posizionamento, di cui il genere rappresenta una componente, ma non l’unica. L’opposizione alla guerra più che una questione di donne come categoria tout court è una complessa pratica femminista.