«Sono Ayten Öztürk, ho 49 anni, ho passato 13 anni e mezzo della mia vita in prigione. Sono stata torturata per sei mesi. Sono agli arresti domiciliari da due anni e rischio di essere condannata a due ergastoli».

Ayten è gentile e insicura, timida e affettuosa. Ci accoglie nella sua casa con l’emozione di chi ritrova delle sorelle lontane, con la gratitudine di chi accudisce un ospite speciale a lungo inutilmente atteso. E insieme a lei a riceverci c’è tutto il quartiere, quello di Armutlu, non lontano dal cuore di Istanbul. La comunità alevita che vi risiede è estremamente unita. Qui capita spesso che la polizia faccia incursione nelle abitazioni con i fucili spianati.

Non sono pochi i casi in cui queste retate finiscono in tragedia, come ci racconta Aysel Dogan, madre di Dilek Dogan, uccisa a sangue freddo a 25 anni, nel 2015, durante una perquisizione.

AYTEN CI CHIEDE con ansia e apprensione quando arriverà il momento della nostra lunga intervista. Dovrà raccontare ancora il rapimento, la prigionia, le torture. Soprattutto le torture. È certa che l’accanimento giudiziario nei suoi confronti dipenda dalle sue denunce. «Perché non ritiri la dichiarazione di aver subito torture? Hai già sofferto abbastanza». «La tortura sistematica è espressione del sistema politico, combatterla significa combattere questo sistema di soprusi e sopraffazione».

«Ho sofferto molto, forse soffrirò persino di più ma voglio che si sappia dei centri segreti e di quello che lì dentro fanno alle persone. Sono stata la prima donna a denunciare. Ma non l’unica, altre lo hanno fatto dopo di me. La mia lotta continuerà fino alla chiusura dei centri segreti e fino a quando i boia saranno giudicati». Si trovava a Beirut quando è stata rapita e portata a Istanbul dai servizi segreti turchi. Rapita, perché ufficialmente questa operazione di polizia non è mai esistita e in quei sei mesi risultava semplicemente scomparsa.

Originaria di Antiochia, viveva in Siria e l’8 marzo 2018 ha provato a raggiungere la Grecia via Libano. Dopo lo scalo è stata consegnata ad alcuni agenti turchi che l’hanno spinta su un aereo e riportata in Turchia. I suoi amici non sapevano dove fosse. Non lo hanno saputo per i successivi sei mesi, mentre veniva trattenuta e torturata con inconcepibile brutalità.

«Appena entrata nel centro segreto mi hanno subito spogliata e messa nuda in una cella. Sappiamo già tutto mi hanno detto, ma vogliamo sentirlo da te, parla! Sono subito entrata in sciopero della fame. Mi chiedevano cosa volessi, La mia libertà! rispondevo, E allora devi parlare, mi intimavano, E allora non voglio niente, dicevo io. Mi hanno fatto l’elettroshock, nuda e con gli occhi bendati. Mi sparavano con una pistola elettrica, non controllavo il mio corpo e quando mi si apriva la bocca per riflesso involontario, mi infilavano a forza la zuppa in gola».

AYTEN È una rivoluzionaria, un’antifascista. Ciò che rivendica, lei come gli altri rivoluzionari turchi, è democrazia, riconoscimento delle minoranze, liberazione dei prigionieri politici, fine delle torture, rispetto dei diritti umani, condanna della brutalità della polizia, giusti processi per gli agenti che hanno ucciso o torturato.

I movimenti rivoluzionari fanno parte della storia e del tessuto stesso della Turchia. Così come la repressione e la violenza dei mezzi usati per sbaragliarli. La detenzione arbitraria e la tortura sono tra questi, come ha confermato ancora una volta nel 2020 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt) del Consiglio d’Europa e nel 2017 il Relatore speciale delle Nazioni unite.

La Turchia è quel paese in cui in sette anni, dal 2000 al 2007, sono morti di sciopero della fame 120 detenuti. Nel 2020 scalpore fecero le morti in carcere, sempre per sciopero della fame, di tre membri del gruppo musicale Grup Yorum e dell’avvocata Ebru Timtik.

«Dopo tre mesi di torture e di sciopero della fame mi sono ammalata. Hanno sospeso le violenze e mi hanno curata e alimentata forzatamente con il sondino. Mi sentivo meglio. Ma ben presto ho capito con orrore che lo stare meglio era una condanna: mi portavano allo stremo e poi mi guarivano solo per poter ricominciare senza rischiare che morissi».

Le leggi antiterrorismo, che consentono l’arresto e la detenzione non solo degli oppositori politici ma anche degli avvocati che li difendono, degli attivisti dei diritti umani, di artisti, cantanti, intellettuali, sono ancora largamente utilizzate. Così come l’accusa di tentare di «rovesciare il governo», di cui Ayten è imputata e per cui rischia uno dei due ergastoli.

L’ACCUSA si muove intorno alla dichiarazione di un testimone segreto. Anche per il secondo capo di imputazione risulta fondamentale il ruolo di un testimone segreto che ha dichiarato di aver visto Ayten Öztürk assistere, cioè guardare da un marciapiede senza prenderne parte, a un tentativo di linciaggio. La vittima del linciaggio non è morta e non ha presentato denuncia, lei nega di esser stata presente, eppure rischia una condanna a vita.

«Mi hanno sottoposta più volte allo stupro del manganello, hanno provato a violentarmi in tutti i modi, mi lasciavano nuda a terra e si lanciavano su di me toccandomi dappertutto con brutalità, con le mani e con oggetti, umiliandomi con insulti e improperi. La tortura che più di tutte mi faceva soffrire era la scarica elettrica che mi davano attraverso placche infilate sotto le unghie. Svenivo ogni volta, mi portavano in bagno e mi mettevano con la testa sotto l’acqua. Poi usavano di nuovo la pistola: con l’acqua il dolore si amplificava».

Dopo i sei mesi di torture Ayten è stata di nuovo curata dai suoi aguzzini e poi abbandonata in un campo, dove la polizia ha finto un casuale ritrovamento qualche ora dopo. Portata in prigione, sul suo corpo le compagne di cella hanno contato 898 cicatrici. Dopo tre anni e mezzo di carcere, il 10 giugno 2021 è stata mandata a casa ai domiciliari, dove è tuttora, in attesa di giudizio definitivo.