Per il Pd fu l’inizio della fine, l’attacco di Renzi e Orfini al sindaco di Roma che aveva vinto le primarie e le elezioni, fu la prima clamorosa buccia di banana, la prima grossa falla politico-mediatica che affondò il Pd romano regalando l’incoronazione alla sindaca Raggi che costruì la sua campagna elettorale sugli scontrini.

La defenestrazione di Marino fu un’operazione politica sconclusionata, perdente, grottesca. Di più, quella patetica immagine dei consiglieri dal notaio per dimissionare il loro sindaco, già faceva intravedere i disastri che tanta arroganza avrebbe provocato per le sorti di un Pd già colpito da Mafia capitale.

Perché subito dopo, nel 2016, Renzi finì sotto le macerie del referendum costituzionale, e oggi quelle macerie sono sempre tutte lì, addosso al nuovo segretario Zingaretti. Che, tra parentesi, non mostrò particolare solidarietà al sindaco sotto attacco. Tanto che oggi lo stesso Marino e i suoi pochi difensori capitolini ne ricordano la freddezza.

Con i pregi e difetti del marziano, Marino ebbe il merito di non farsi defenestrare tanto facilmente. La sua sfida fu di chiedere di essere sfiduciato lealmente, in assemblea, in Campidoglio, davanti all’opinione pubblica. Un’arma di difesa giusta e importante, capace di smascherare l’immagine avvilente offerta dai dirigenti del Pd riuniti dal notaio per rottamare, con ogni mezzo, il loro sindaco. C’era perfino un assessore torinese, Esposito, che andava in tv a parlare della «scomunica» papale verso il marziano nella città santa. Con un occhio al Giubileo che incombeva sulla Capitale. (Marino si era schierato per la fecondazione assistita e le unioni civili).

La lunga notte del partito democratico, il drammatico dimezzamento dei consensi non sembra aver portato consiglio. L’ex segretario scarica su Orfini, commissario del partito romano, la responsabilità della cacciata e Orfini gonfia il petto: «Marino era un disastro». Nessun mea culpa, anche se, essendo in clima di Quaresima, a Orfini e compagni si potrebbe ricordare la parabola evangelica, perché non c’è peggior cieco di chi non vuole vedere.