Non vuole un intervento armato in Niger il Consiglio per la pace e la sicurezza (Psc), organo al quale i 55 Stati membri dell’Unione africana (Ua) affidano le decisioni in materia di prevenzione, gestione e risoluzione dei conflitti.

Il Psc si schiera per una soluzione diplomatica della crisi apertasi a Niamey con il colpo di Stato del 26 luglio. È stata talmente lunga e travagliata la riunione del Consiglio, tenutasi lunedì 14 ad Addis Abeba e presieduta dal Burundi, che ieri si stavano ancora negoziando i termini esatti di un documento che, dopotutto, impegna collettivamente l’Ua.

LE DICHIARAZIONI di diversi diplomatici africani hanno fatto titolare a Le Monde: «L’Unione africana respinge qualunque intervento armato in Niger e si dissocia dalla Cedeao», la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale, 15 membri di cui quattro sospesi in seguito a colpi di Stato.

Di fronte a una realtà nuova – sei colpi di Stato in tempi recenti – i paesi dell’Africa australe, quelli dell’Africa del Nord e quelli dell’Africa centrale si sono detti in disaccordo rispetto all’uso delle armi, anche se tutti sono stati concordi nel sospendere da ogni attività dell’Ua il Niger, ora guidato dal Comitato nazionale per la salvaguardia della patria (Cnsp).

Ha confidato ai giornalisti un diplomatico dell’Unione: «Ferma restando la nostra politica di tolleranza zero nei confronti dei cambi di governo incostituzionali, abbiamo scelto di non sostenere un intervento militare: potrebbe portare a un bagno di sangue e causare danni peggiori».

UNA DISSOCIAZIONE inedita – l’Ua di solito si allinea alle posizioni delle organizzazioni regionali – in grado di ostacolare l’atteggiamento marziale della Cedeao che, pur continuando a parlare di dialogo, ha ordinato l’attivazione della sua forza di riserva, benché molte voci mettano in dubbio la legalità internazionale di un simile passo, oltre ad allertare sulle sue possibili conseguenze.

Oggi e domani, comunque, si riuniscono ad Accra i capi di stato maggiore della Cedeao, dopo il rinvio di quasi una settimana. Il braccio di ferro prosegue dunque tra pesanti sanzioni e minacce. Ma si susseguono anche gli incontri negoziali: dopo i religiosi nigeriani in missione a Niamey, ecco il viaggio del governo maliano in Russia e la visita in Ciad – un paese molto provato dal conflitto nel vicino Sudan – del nuovo premier nigerino, l’economista Ali Mahaman Lamine Zeine, che ha chiesto di «rinnovare il sentimento di buon vicinato e fraternità tra i due paesi» e ha dichiarato la disponibilità al dialogo con tutte le parti, nel processo di «transizione» all’insegna però dell’indipendenza nazionale.

L’istituto di ricerca francese Iveris ribadisce che un intervento armato sarebbe inviso alle popolazioni dell’area, tanto più dopo le esperienze della Libia e della Costa d’Avorio nel 2011; e che condannare il colpo di Stato è una cosa, ma ripetere il mantra che occorra con ogni mezzo reintegrare subito il presidente Mohamed Bazoum non aiuta a risolvere la crisi, anzi può anche mettere a repentaglio la vita di quest’ultimo. E un’azione di forza contro la giunta acuirebbe le enormi difficoltà della lotta nigerina contro il terrorismo, su due fronti: contro Boko Haram a sud-est (insieme alla Nigeria) e contro lo Stato islamico nella zona delle «tre frontiere».

SULLO SFONDO, gli enormi appetiti internazionali sulle ricche risorse di un popolo povero: tra le altre, petrolio e uranio. Un minerale che, ribadisce un’analisi di maliweb, farebbe comodo anche agli Stati uniti: in conseguenza della crisi ucraina, Washington si rivolge all’Africa in modo più diretto.