Guardo il calendario e strillo la mia angoscia al mondo: il 20 Marzo finirà il mio periodo di allattamento, riprenderò a lavorare full time e sarò gettata nel mezzo del marasma e dell’ansia che caratterizza la vita delle donne con figli piccoli.

Dovrò innanzitutto spiegare al mio piccolo che la poppata del pomeriggio salterà definitivamente. Non è una poppata con cui saziare lo stomaco, ma serve a rassicurarlo del fatto che la mamma è tornata, ed a rafforzare il concetto che nonostante i suoi vagabondaggi, tornerà sempre a casa. Chi glielo dice al ragazzino che si dovrà accontentare della pera frullata?

Dovrò spiegargli che in settimana con la mamma non si giocherà più. Basta passeggiate e ludoteca: tornando a casa verso le 18.00 (se va bene) ci sarà giusto il tempo di preparare la cena, e poi di metterlo a nanna. Infatti i ritmi dei lattanti (o almeno del mio) sono così: Paolo comincia alle 19 a stropicciarsi gli occhi e se per le 20.30, al massimo le 21 non è a letto sono guai. E al mattino ci sarà il tempo solo per la colazione, e poi via, in auto (perché non potrò più sottomettermi ai tempi eterni dei mezzi pubblici) verso casa della nonna e poi in ufficio. Se va bene lo vedrò sveglio 3 ore al giorno.

Forse prima che a lui, dovrò spiegarlo a me, per farmene una ragione.

Siccome la mia ditta non concede il part time, ho dato un’occhiata alle offerte di lavoro, ma ho rinunciato subito: si tratterebbe di gettare alle ortiche le mie competenze, 18 anni di esperienza lavorativa nel mio campo per lavori meno qualificati o comunque impegnativi come orario (vedi la commessa part time dal lunedì alla domenica – perché Dio la domenica riposa, la commessa no).

Di lasciare il lavoro non se ne parla (almeno, di lasciarlo volontariamente): se esci dal mondo del lavoro sei fritta, non ci rientri più e io non me la sento di rischiare. Anche l’impiegata vuole il figlio dottore, e con il mondo di oggi servono 2 stipendi per avere un menage famigliare che comprenda, oltre al pane, anche qualche rosa.

Questa è una situazione assolutamente comune tra le donne che lavorano e hanno figli.

Così come è comune che difficilmente ti sia permesso di godere di tutta la maternità facoltativa senza ricevere pressioni per il rientro. E vogliamo parlare delle donne che hanno contratti di lavoro a vario titolo precari e del ricatto che subiscono?
E allora com’è che questo paese passa per la terra delle mamme, della famiglia, dei figli bamboccioni?

Al consultorio di Nichelino, dove abito, ho conosciuto una immigrata finlandese, che aggiungeva alla sua nostalgia del mar Baltico, il disappunto per il fatto che in patria le sarebbe stato concesso di restare a casa fino ai tre anni del bimbo. Qui invece i nostri bamboccioni in alcuni casi non arrivano in tempo allo svezzamento e già si ritrovano tritati dagli orari cui devono sottostare i genitori.

Ma possibile che con tutto l’attuale dibattito sulla famiglia non si trovi un momento per ragionare su come allargare un po’ la sfera dei diritti dei genitori? O forse sotto sotto il pensiero dominante è che la donna debba restare a casa a crescersi i figli, supplendo così anche ai tagli ai servizi per l’infanzia? E che se una donna insiste a voler lavorare, vabbè, vuol dire che antepone alla cura della famiglia smodate ambizioni di carriera, e perciò, schiatti pure di fatica?

Vogliamo parlare dei diritti dei padri a poter accudire la prole? O sotto sotto pensiamo che siano strani e un po’ effeminati gli uomini che desiderano poter stare a casa con i loro bambini?

Perché non si può permettere a madri e padri di usufruire del part time fino almeno ai 3 anni dei bambini? Perché non allungare il congedo parentale obbligatorio per gli uomini?

Mi dicono che lavoro non ce n’è, e allora come mai sono poche quelle che riescono a godersi tutta la maternità facoltativa? Perché sono così tante le persone incastrate in una corsa dal ritmo logorante?

Basta con le scuse, non è che non ci sono soldi, non è che non c’è lavoro, è che si vuol cambiare modello sociale, per imporcene uno che ci consuma e che ci tiene lontana da chi ha più bisogno di noi; un modello che per avere successo ha bisogno del sacrificio delle fasce sociali meno abbienti.

Lo so che nel nostro Paese l’immagine della mamma eroica e dolente che soffre in silenzio per amore dei figli è ben radicata, ma non sarebbe ora di cominciare a lasciarsi alle spalle certi cliché?

Mi piacerebbe che si parlasse di più di tutto questo, andando al di là dello sfogo. Vorrei parlarne con le donne e gli uomini nella mia situazione, e con tutti gli uomini e le donne che nella mia situazione non ci sono ma pensano di fare parte di una comunità e che pertanto sia anche un loro diritto/dovere creare le migliori condizioni per l’accoglienza dei più piccoli.

Lo facciamo? Anche Paolo è d’accordo (gli ho spiegato che probabilmente non riusciremo a salvare la sua poppata pomeridiana, ma forse potremo fare qualcosa per quella di qualche altro bambino. Ha risposto che se i sacrifici sono fatti per ottenere un trattamento migliore per tutti non gli fanno paura).