Nel 1983 uscirono, nella collana einaudiana degli «Struzzi», gli Esercizi di stile di Raymond Queneau, considerato fino ad allora un libro intraducibile. Si tratta di novantanove variazioni su un tema in apparenza banale, sviluppati intorno a esiti linguistici o formali sempre rinnovantisi. La traduzione di Umberto Eco esula dal concetto canonico di trasposizione in un’altra lingua. Bisognava reinventare il testo originale, riscriverlo, interpretandone le regole nascoste, anche se il rischio era quello di scegliere soluzioni espressive contenenti, se non abbagli, perlomeno qualche episodica dissonanza. Tale aspetto ludico si manifestò a più riprese, culminando nel brano intitolato «Lipogramme», tecnica consistente nell’elisione di una lettera dell’alfabeto, piuttosto in voga nel circolo dell’Oulipo, tanto da indurre Georges Perec a concepire il romanzo La Disparition eliminando in toto la «e». Eco propone cinque varianti, attinenti all’intero spettro delle vocali, contro la versione originaria di Queneau, ossia un frammento caratterizzato dalla soppressione della sola «e». Il titolo diverrà «Lipogrammi», al plurale, e un testo di appena una decina di righe si svilupperà, nella versione a fronte, nell’arco di tre pagine.

Se la versione da Queneau rientra nella sfera di interessi semiologici e strutturalistici coltivati da Eco, prestandosi idealmente al concetto di «opera aperta», meno scontato appare il coinvolgimento nutrito nei confronti di Gérard de Nerval, culminato nella traduzione del racconto Sylvie Ricordi del Valois che La nave di Teseo ora ripropone con testo francese a fronte (pp. 192, € 18,00). Il libro apparve originariamente nella collana «Scrittori tradotti da scrittori» di Einaudi nel 1999. Come già raccontato in Sei passeggiate nei boschi narrativi, edito da Bompiani qualche anno prima, il trasporto del semiologo per questo testo, letto «a vent’anni, quasi per caso», risale a tempi remoti: nel 1962 esce il saggio Il tempo di Sylvie in «Poesia e critica», seguito da una serie di seminari incentrati sul tema dell’opera nervaliana e nel numero speciale della rivista «VS», apparsa un ventennio dopo.

Nell’articolata postfazione, Eco riporta i testi consultati (dalle Œuvres, curate da Henri Lemaitre per Garnier nel 1966 ai tre volumi delle Œuvres complètes, predisposti da Jean Guillaume e Claude Pichois nella Bibliothèque de la Pléiade gallimardiana tra l’89 e il ’93), passando, da bibliofilo sopraffino, attraverso il vaglio dell’editio princeps. Il racconto fu anticipato nel 1853 nella «Revue de deux mondes», per confluire l’anno successivo, con qualche piccola variante, nel volume Les Filles du Feu, edito da Giraud a Parigi. Si riporta altresì l’elenco delle versioni italiane precedentemente approntate, che spaziano dalle Figlie del fuoco allestite da Raffaello Franchi per l’Istituto Editoriale Italiano nel 1917 al medesimo titolo licenziato da Renata Debenedetti per Garzanti nel 1983.

L’aspetto forse più interessante dell’interpretazione fornita da Eco riguarda quell’effetto-nebbia sul quale disquisisce a più riprese, chiamando in causa le elucubrazioni proustiane apparse nel Contre Sainte-Beuve, in cui si legge che l’atmosfera di Sylvie è «come la nebbia di un mattino a Chantilly». L’effetto-nebbia ha a che fare con «un colore irreale – che vediamo talora dormendo e di cui vorremmo fissare i contorni», senza tuttavia riuscirci. L’elemento onirico si configura come uno dei tratti salienti della novella anticipando tematiche che troveremo sviluppate, con scoperto richiamo alla psicoanalisi freudiana, nell’opus dei surrealisti. Lo stesso Nerval ammette: «Nel rievocare questi dettagli, ecco che mi domando se sono reali, o se li abbia sognati».

E molto strano appare il fatto che Nerval non figuri nell’Anthologie de l’humour noir di Breton (certo, nella sua opera appaiono molto flebili sia il sarcasmo sia l’ironia, ma in Poe, lì assurto a prototipo del rire jaune, questo aspetto non risulta forse altrettanto lacunoso?). La pagina di Nerval, raffinata, coltissima, avvolgente, dotata di spiccata musicalità, spazia da un argomento all’altro. Se non risulta possibile effettuare voli pindarici nella resa offerta in italiano, il fascino esercitato da Sylvie, mediato attraverso molteplici chiavi di lettura, si manifesta appieno nella postfazione, confermando in tale sede la sua compromissione con la definizione di «opera aperta». Qui Eco fa ricorso alle discipline più disparate (dalla topografia alla cronologia alle ricorrenze intertestuali), avvalendosi di tabelle esplicative tese a evidenziare le «simmetrie dell’intreccio» narrativo, nonché le contrapposizioni esistenti tra elementi diurni e notturni, disforici ed euforici. Sfruttando il contrasto esistenziale tra Gérard Labrunie e l’alter ego Gérard de Nerval, nom de plume adottato dopo la pionieristica variante Gérard, e tenendo conto che il protagonista di Sylvie scrive in prima persona, Eco coniuga il pronome personale je e il patronimico dello scrittore, creando il personaggio fittizio di Jerard, delegato ad accompagnarci entro inusuali anfratti esegetici, non riuscendo «mai a dirci con quale dei suoi Io passati s’identifichi».

Le stesse figure femminili sembrano sfumare una nell’altra, perdendo i propri tratti distintivi in una sorta di metamorfosi equiparabile al volo di altrettante falene inebriate dalla fiamma ondivaga di una candela. Sylvie rimanda ad Adrienne, Adrienne ad Aurélie, Aurélie ancora a Sylvie, con effetti mimetici di cui è disseminata l’intera narrazione (si vedano anche i riferimenti al teatro dei Funamboli, che ritroveremo intatti negli Enfants du paradis di Carné). «Adrienne o Sylvie – erano due metà di un solo amore» confessa lo stesso Nerval nell’epilogo. Queste tre donne incarnano differenti modelli muliebri: Adrienne, austera discendente dei Valois, destinata alla vita claustrale e a una morte precoce; Sylvie, ragazza sana e solare di ascendenza contadina; Aurélie, conturbante attrice teatrale dove si possono ritrovare le fattezze dell’idolatrata Jenny Colon, sulla cui avvenenza Eco avanza qualche comprensibile riserva (l’elemento biografico, così caro a Sainte-Beuve e non condiviso da Proust, è necessariamente avulso da questa forma di esegesi).

Eco si reca nel Valois, dove la vicenda è ambientata, e stila una carta topografica relativa ai vagabondaggi del protagonista, sulla falsariga del mentore Rousseau, citato più volte nel racconto (ma si pensi anche a Francesco Colonna, autore dell’Hypnerotomachia Poliphili, stampata da Manuzio, la cui figura viene sapientemente investigata dall’amico bibliofilo Charles Nodier). Vengono rilevate eventuali incongruenze, come quando si asserisce che «il percorso scelto dal fratello di Sylvie nella notte di Châalis» può essere giustificato solo dall’ubriachezza del ragazzo. Lo stesso narratore adopera ogni sotterfugio per depistarci. La dimensione usuale del lettore, di primo o secondo livello secondo i dettami di Eco, è lo straniamento, con effetti opposti rispetto a quelli indiziari adoperati per il romanzo poliziesco. Il senso di approssimazione, di precarietà, è costante, basato su un «universo metamorfico in cui un’immagine sfuma nell’altra e vi si sovrappone».

Esemplare la sezione riguardante le note sulla traduzione, laddove Eco giustifica le proprie scelte attraverso considerazioni inappuntabili, spesso mettendole a confronto con retaggi antecedenti. Arriverà a consultare la direttrice del Musée de la Mode di Parigi al fine di sciogliere i residui dubbi su termini designanti sbuffi o taffetà, ora in disuso. Non si tratta d’altronde di adoperare un metodo uniforme ma di adattarsi a situazioni mutevoli, cangianti. Come rendere «la frêle broderie des étoiles d’eau»? Cosa sono le «stelle d’acqua»? Dopo accurate ricerche estese all’ambito botanico, lo studioso arriva alla conclusione che corrispondano alla Damasonium alisma, producente frutti a forma di stella, un tempo chiamata étoile d’eau. Si limita quindi a tradurre letteralmente «il gracile ricamo delle stelle d’acqua», in linea con la lezione, non sempre apprezzata, di altri suoi predecessori.