Khaled non è un degenerato, nemmeno uno psicopatico o un sadico. Etichettare così Khaled, per quanto liberatorio e auto-assolutorio, sgretola in un istante la necessità della comprensione di un fenomeno che è l’umanità. Khaled è un essere umano e la sua vita, le sue scelte, il suo graduale e devastante scivolamento dentro il male del mondo è una degenerazione dell’umano. Per questo le sue parole irrompono, esplodono dentro l’animo di chiunque le ascolti, destabilizzano la normalità, pesantemente la molestano.

Perché Khaled non è estraneo alla storia, al qui e ora. Ne è parte. Ne è piuttosto simbolo estremizzato, modello. Paradigma di un sistema ampio, istituzionale e sotto traccia, che attraversa ogni livello politico e sociale, dalle stanze dei ministeri occidentali alle jeep impolverate che nel deserto subsahariano tramutano persone in pacchi da consegnare, nemmeno degni di un «fragile» scritto sopra. Le parole di Khaled sono quelle di Francesca Mannocchi, giornalista italiana da anni impegnata in Medio Oriente e in Africa, profonda conoscitrice di quei luoghi, delle medine antiche come dei campi di concentramento per migranti, delle rotte che in migliaia affrontano ogni anno per scampare a esistenze indegne svuotate di prospettive, diritti, quotidiana vivibilità.

Io Khaled vendo uomini e sono innocente, edito da Einaudi (pp. 208, euro 17), è un libro imprescindibile. È un romanzo, un reportage, un’inchiesta, un trattato di sociologia. Vedeteci quel che volete. È dirompente, doloroso, crudo, è uno schiaffo in faccia che scuote la nostra trance e ammonisce di svegliarsi, guardare. Guardarsi: perché quello raccontato non è un mondo distopico, un pianeta altrui di un futuribile ed eventuale presente abitato da un’altra umanità. Siamo noi con il nostro bagaglio ineluttabile di banalità di un male che riproduce se stesso.

CHI ABBIA AVUTO l’occasione di conoscere la Libia del colonnello Muammar Gheddafi, la Jamahiriyya costruita su culto personale e pugno di ferro, non può che ritrovare nelle pagine di Mannocchi quel gran labirinto di controllo sociale plasmato dal rais. L’umiliazione della libertà è altrettanto normale: ci si affida al regime, in cambio si rinuncia a diritti e autodeterminazione. Sono i camaleonti, così li chiama Khaled, i libici capaci di sopravvivere a qualsiasi stravolgimento, piccolo o grande che sia, di tenere sempre la testa fuori dall’acqua modificando la loro pelle. Come fa il padre di Khaled, accusato dal figlio di non essere altro che un parassita capace di tradire e mandare a morte il migliore amico, in uno scontro generazionale che trova nella rivoluzione il punto di rottura ma non di soluzione.

Sono i giovani che provano a fare la rivoluzione, quelli stanchi di fungere da topi di laboratorio del regime, di trascorrere un’esistenza a galleggiare nel marcio e nella propaganda spicciola, di non poter esprimere un pensiero autonomo perché – avverte la madre di Khaled – «in Libia anche le pareti hanno le orecchie». Eppure quei giovani non faranno una rivoluzione. Penseranno di averla fatta, almeno all’inizio, nell’eccitazione scatenata dall’avere un’arma tra le mani e dal tendersi verso il sogno di libertà. La rivoluzione non ci sarà. Santana – così Khaled e la sorella appellano Gheddafi, nei loro giochi di bambini per evitare di finire intrappolati nelle curiosità sempre tese delle pareti – non è mai morto perché la Libia del post 2011 lo tiene in vita con i suoi camaleonti, i rivoluzionari che si infilano i doppiopetti, i cambi di casacca che aprono ossequiosi le porte alle armi occidentali per svendere ancora una volta il paese a mani altrui.

IL DOLORE per la morte precoce della rivoluzione, interrotta prima di venire al mondo, trasforma Khaled. Il sogno di diventare un ingegnere si spegne con la vita del fratello combattente, il modello, il martire salvato dalla morte. La morte lo salva perché gli impedisce di corrompersi, di essere trascinato nella distruzione che aleggia sulla Misurata ribelle svenduta al miglior offerente.
Con una prosa secca, diretta, in un dialogo che è un flusso di coscienza, là dove proprio della coscienza non c’è più traccia, Mannocchi tratteggia con stupefacente sensibilità la disumanizzazione di un uomo che la trasla sul prossimo. I migranti, gli africani, i «negri» senza nome, massa informe e piatta, altro non sono che il passaporto verso l’unica cosa che Khaled pensa di poter chiedere al suo paese: soldi. Denaro in cambio dell’anima.

Emerge comunque, quest’ultima, perché costretta a farlo, ma che il Khaled ex rivoluzionario, il Khaled trafficante, ingoia e fa sparire. Vomita per il disgusto ma soverchia, non dorme al pensiero della mamma siriana scomparsa tra le onde ma continua a vendere e comprare persone, punisce il compagno che tortura un africano ma poi categorizza la sua «merce» sulla base della nazionalità. I siriani non vanno in stiva, hanno i soldi; gli africani si sacrifichino, non ne hanno abbastanza.

KHALED SI AUTOASSOLVE, ma l’autrice non glielo permette. Lo fa parlare, lo fa giustificare, gli mette a disposizione specchi su cui arrampicarsi ma non lo perdona. Perché non è solo un ingranaggio di un sistema che esisterebbe a prescindere. Lui è il sistema. È la disumanizzazione dell’altro in una realtà di globale arretramento morale, etico, politico.

Non parla solo Khaled. Parlano anche le sue vittime: l’autrice dà loro spazio, stretto quanto potente. Raccontano gli ultimi istanti, lasciano lettere e diari utili a ingannarsi che il peggio passerà. Quel peggio è un continuum, un filo rosso che lega il villaggio di origine al gommone fatiscente che li condurrà nel migliore dei casi verso un’Europa che li odia e nel peggiore in fondo al mare. Il mare non è spettatore passivo, ma la metafora dell’egoismo e dell’ignoto, che si prende quel che ritiene essere suo (esattamente come Khaled); un mare che si oppone al deserto accogliente e libertario dei racconti nostalgici del nonno, la figura che dal libro emerge come l’unica salvifica in grado di indicare la via morale.

In un rimpallo continuo, Mannocchi attinge alle sfaccettature di un’umanità perversa che corre dallo sdegno di una madre che si disfa dei regali del figlio, che i soldi li arrotola nelle tasche svuotando quelle degli ultimi della terra, all’indifferenza meschina dei «direttori» dei centri di detenzione, non-luoghi dove tutto è drammaticamente possibile. Sullo sfondo, ma sempre presente come un’ombra, c’è l’altra faccia del selvaggio, l’Europa. Ci sono gli italiani e i francesi, c’è il governo fantoccio di Tripoli e il suo premier al-Sarraj, utile idiota che serve a chi lanciò l’offensiva aerea nel 2011 a ricostruirsi una verginità ma soprattutto a continuare a spartirsi le ricchezze energetiche libiche. Sei milioni di libici con il culo sopra un patrimonio di petrolio, che si lavora a fare verrebbe da chiedere, quando sottoterra c’è qualcosa che permetterebbe una vita di rendita. Ma qui la rendita, enorme, è per pochi, per i vecchi-nuovi colonizzatori e per i doppiopetti camaleontici, i sempreverdi dell’autoritarismo.

E LA LIBIA MUORE, uccide e si uccide, si inselvatichisce, sommersa dal mare come le vittime globali della tratta di esseri umani, dove l’africano è il nuovo oro nero per il sottobosco di omuncoli ministri, capi di milizia, «semplici» trafficanti. Francesca Mannocchi ha composto un libro difficile da dimenticare, poetico, in cui la scrittura è cornice perfetta al disastro. Sono parole, le sue, che accompagnano la discesa agli inferi come il mare accompagna le barchette delle speranze infrante: le culla e le tradisce, dà e prende. Secche e immediate, sono parole in cui un nome ce l’hanno in pochi e quelli che ce l’hanno, i «riconoscibili», sono i carnefici. Le vittime, anonime per lo più, non ne hanno bisogno, la loro mera esistenza basta a dargli dignità. E alla fine ciò che rimane è la verità scarna: dove prima c’era un Gheddafi solo, ora ci sono i regimi di «tanti Gheddafi minori». Di qua, e di là, dal Mediterraneo.