Il regionalismo differenziato già esiste (4 Regioni), è previsto dalla Costituzione (riforma 2001 del titolo V) che va applicata; inoltre si tratta di una proposta del centro sinistra, e prima di fare il regionalismo differenziato c’è da garantire l’universalismo delle prestazioni.

Cioè i Lep. Il prof Cassese ha così sintetizzato il suo pensiero sulla proposta presentata dal ministro Calderoli al governo (la 7 Omnibus 31 gennaio 2023). Ho citato il prof Cassese perché per me rappresenta un maitre a penser saggio e equilibrato.

Ma non in questa occasione, perché un vero saggio non dovrebbe limitarsi a seguire il proceduralismo formale delle leggi (le leggi, anche se fatte dal centro sinistra, potrebbero essere sbagliate e se sbagliate dovrebbero essere corrette); dovrebbe conoscere in subjecta materia le vere complessità in gioco; dovrebbe essere attento alle antinomie. Se si vuole differenziare allora è perché si è uniformato e non si vuole uniformare più.

La condizione dalla quale Cassese fa dipendere la fattibilità del regionalismo differenziato, cioè i Lep, è una condizione, per la sanità, del tutto insussistente ma soprattutto è una condizione insufficiente a garantire l’universalismo che lui auspica.
In sanità considerando le irriducibili complessità in gioco, non bastano né i Lea né i Lep per garantire l’universalismo. La ragione è semplice: in sanità per avere una eguaglianza sostanziale non basta una eguaglianza formale.

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Per esempio (trascurando del tutto le questioni della singolarità e del contesto) a parità di malattia, per avere una cura adeguata, bisognerebbe che fosse garantita dalle stesse strutture, dagli stessi operatori in qualità e numero, con le stesse risorse, usando le stesse metodologie quindi supponendo prassi analoghe.

Ma siccome nella realtà queste condizioni non esistono, è incongruo, illusorio definire i Lep senza prima ridefinire le condizioni di funzionamento della sanità pubblica quindi le sue organizzazioni adatte. Ma non solo. Essendo la sanità pubblica sempre più privata, il mix pubblico/privato alla fine si rivela decisivo a cambiare le prestazioni da regione a regione.

Nella letteratura nazionale e internazionale abbiamo evidenze che ci dicono che la mortalità è più alta nella sanità privata e più bassa in quella pubblica. E questo anche se sia il pubblico che il privato si riferiscono agli stessi Lea o agli stessi Lep. Le prestazioni descritte nominalmente nei Lep o nei Lea sembrano uguali e definite con lo stesso nome ma quelle del privato sono diverse da quelle del pubblico. A renderle diverse è il loro scopo e i modi che si usano per conseguirlo.

Se l’obiettivo è il rispetto del diritto, le prestazioni saranno di un tipo se invece lo scopo è il profitto le stesse prestazioni saranno di altra specie. Secondo il principio tomista agere sequitur esse cioè “l’agire segue l’essere” quindi la prestazione finisce con il dipendere da chi la fa e da come si fa.

Infine vorrei ricordare al prof Cassese, che in sanità i Lea sono stati introdotti nel 1992 per ragioni di risparmio (all’inizio si parlava di prestazioni, poi di prestazioni minime e infine di prestazioni essenziali), che dopo la loro introduzione le diseguaglianze nel paese sono cresciute e che i Lea non hanno impedito alle regioni del nord di lucrare con la mobilità sanitaria sulle regioni del sud . Se per magia dovessimo fare i Lep garantendo al sud le prestazioni che non ha, si deve sapere che le regioni del nord senza la mobilità sanitaria rischierebbero di chiudere bottega.

Il fondo di perequazione che propone Calderoli è una vera foglia di fico. Non credo che basti rendere il mondo formalmente uguale per dire che le differenze regionali non sono più un problema. Non è così. Al prof Cassese bisognerebbe porre una semplice domanda: ammesso che i Lep non siano una garanzia di universalità, il regionalismo differenziato lo farebbe o no?