La Guerra civile è finita solo da qualche settimana, ma nella cittadina di Old Ox, in Georgia, l’annuncio di una nuova vita è ancora avviluppato nei tetri fantasmi del passato. Prentiss e Landry sono nati in schiavitù, figli di schiavi e cresciuti in una piantagione di cotone della zona. Ma ora che il vecchio Sud, dove il suprematismo bianco era l’unica legge, si è dovuto arrendere alle truppe dell’Unione, iniziano ad assaporare il profumo della libertà. Immersi in una natura rigogliosa e magica, coltivano il sogno di partire per scoprire ciò che la vita ha loro negato fino a quel momento. Intorno a loro, la famiglia di George e Isabelle, bianchi e piccoli proprietari che ne riconosceranno l’umanità forse per la prima volta, due giovani, già arruolati nelle fila confederate che si amano e cercheranno di celare il loro segreto a qualunque costo e una comunità che stenta a riconoscersi nel mondo nuovo che si fa avanti. L’esito di tutte queste vicende non potrà che essere drammatico, ma come la lingua delicata e morbida con cui Nathan Harris, nato in Oregon e residente a Seattle, ha composto questo suo esordio narrativo – La dolcezza dell’acqua (Nutrimenti, pp. 426, euro 19, traduzione di Anna Mioni) -, tra i più significativi dello scorso anno secondo la critica americana, la consapevolezza della profonda umanità di ogni figura descritta lascerà in fondo uno spazio tangibile per la speranza.

«La dolcezza dell’acqua» affronta una fase della storia americana, quella che segna l’inizio della cosiddetta Ricostruzione nel Sud del Paese alla fine della Guerra civile, trattata raramente dalla letteratura: come è nata l’idea di ambientare la vicenda proprio in quell’epoca?
Non avevo mai pensato a come doveva essere stato per quegli uomini e quelle donne che, dopo una vita passata in schiavitù, avevano avuto improvvisamente l’opportunità di fare ciò che desideravano. Dove avrebbero voluto andare? Cosa potevano desiderare di realizzare lì, in quelle terre che li avevano visti schiavi? Quel momento deve essere stato incredibilmente disorientante e contraddittorio. Volevo esplorare quella finestra temporale come romanziere, e questo libro rappresenta il mio tentativo di metterlo in pratica. Alla fine credo che tutto si possa far risalire a quella vecchia citazione di Toni Morrison: «Se c’è un libro che vuoi leggere, ma non è ancora stato scritto, allora devi scriverlo». Non avevo mai visto nessuno cimentarsi con un romanzo su questa specifica fase storica. Quindi l’ho fatto io.

Nathan Harris in una foto di Hannah Kinchen

Con l’abolizione dello schiavismo, due dei protagonisti, i fratelli Prentiss e Landry, cresciuti in una piantagione di cotone, sono finalmente liberi ma devono fare i conti con una realtà dove i pregiudizi sono ben radicati. Nel loro sguardo si intreccia la memoria delle sofferenze subite e l’annuncio di un mondo nuovo, tutto da esplorare. Come ha definito il loro profilo?
Questa è semplicemente la fonte dell’empatia in cui credo che ogni romanziere debba scavare. Ogni storia che racconto è radicata in una realtà. Per me, io ho davvero due fratelli. Al di là di quel piccolo pezzo di verità, ho però dovuto svolgere il lungo e arduo compito di scavare in come sarebbe stato esplorare questo nuovo mondo, forse accanto ad uno dei miei fratelli. Immaginare il senso di sofferenza provato da Prentiss e Landry è stato uno dei compiti più difficili dell’esperienza della scrittura. Ma doveva essere fatto per rendere il libro autentico. E sono orgoglioso di come è andata a finire.

Accanto ai fratelli incontriamo il personaggio di George Walker, uno yankee trapiantato tra i sudisti che non guarda alle persone in base al colore della loro pelle. La sua avversione per i pregiudizi sembra perfino eccessiva per l’epoca: davvero nella Georgia della seconda metà dell’Ottocento si poteva incontrare una figura simile?
George è un individuo egoista e ferito. Ha perso suo figlio durante la Guerra civile ed è alla disperata ricerca di un modo per entrare in contatto con qualcuno, qualsiasi tipo di connessione, anche quella nata dai suoi incontri con Prentiss e Landry. Per molti versi, George ignora i suoi privilegi come in molti continuano a fare ancora oggi. Credo che i suoi punti ciechi psicologici a volte siano utili per le persone che lo circondano, ma sono anche altrettanto problematici. Con l’intenzione di fare il bene, semina una grande quantità di caos nella cittadina di Old Ox. Spero che le sfumature del carattere di questo personaggio inducano pensieri contrastanti nei lettori. Del resto, la buona letteratura dovrebbe essere piena di contraddizioni. Proprio come George.

Il suo romanzo narra una vicenda dolorosa e per certi versi terribile, eppure si ha l’impressione che abbia scelto di costruire ogni personaggio, perfino i più detestabili, con una certa dose di tenerezza, mettendo in risalto anche la fragilità delle figure più negative.
Al mondo non ci sono né veri eroi né figure esclusivamente cattive. Confido che i lettori riconoscano che anche gli esseri umani più spregevoli stanno operando, a livello cognitivo, per fare ciò che è «giusto» secondo la loro visione del mondo. Rappresentare tutti i ceti sociali e gli ambienti in modo da ispirare empatia: questo è fondamentalmente il mio obiettivo come autore. Forse Barack Obama l’ha espresso meglio di così: vedere il mondo attraverso gli occhi di coloro che sono diversi da noi; il bambino che ha fame, l’operaio siderurgico che è stato licenziato, la famiglia che ha perso l’intera vita che avevano costruito insieme quando la tempesta è arrivata in città… Quando pensi in questo modo, quando scegli di ampliare l’ambito della tua preoccupazione ed entrare in empatia con la difficile situazione degli altri, siano essi amici intimi o sconosciuti, diventa più difficile non agire, più difficile non dare una mano e aiutare. Forse chi legge il mio libro non passerà all’azione, ma almeno capirà meglio le persone che ha intorno.

Recensendo il romanzo, il «Washington Post» ha scritto che nella sua prosa emerge l’eco di una «patina antica» che sembra rimandare addirittura all’Ottocento. E una lettura nella quale si riconosce?
Il mio obiettivo è allineare il tono del narratore cui mi affido e il tono della storia in un modo che crei armonia e coesione. Dato che era ambientato nel XIX secolo, volevo che il mio romanzo irradiasse un senso di autenticità. Se ci sono riuscito, allora vuol dire che ho svolto il mio compito con successo.

La vicenda che racconta nel suo libro si svolge in Georgia, lo Stato dove ancora oggi un gruppo di famiglie nere vorrebbe organizzare una comunità «rifugio» denominata Freedom, nei pressi di Toomsboro, per vivere al riparo dal razzismo e dai pericoli a cui questo li espone. L’idea, fanno sapere, è nata dopo l’uccisione nel 2020 di George Floyd da parte di un agente di polizia. Cosa ne pensa?
Come disse una volta William Faulkner, «Il passato non è mai morto. Non è nemmeno passato». Questo tipo di progetti rappresentano degli sforzi onorevoli, ma non ci sono «cure» per il razzismo. È un problema sistemico che continuerà a perseguitare gli Stati Uniti per molti anni a venire. Ciò non significa che dobbiamo perdere la speranza di superare il razzismo, ma gli obiettivi a cui miriamo devono essere realistici.

Nel suo ultimo libro – «Just Us», pubblicato da 66thand2nd -, la scrittrice e poetessa Claudia Rankine afferma che la consapevolezza che le radici degli Usa affondino nel razzismo e nella schiavitù appartiene solo ai neri e che proprio per questo è difficile costruire un vero dialogo tra gli individui al di là del colore della pelle. E questo al di là del fatto che il Presidente sia Obama, Trump o Biden. Al contrario, il suo romanzo sembra dirci che il dialogo era possibile già quando l’età dello schiavismo era al crepuscolo.

Credo che una forma di dialogo si svolgeva in quell’epoca in certi ambienti. E, allo stesso modo, sta avvenendo anche adesso. E continuerà ad aver luogo indipendentemente da chi sia il presidente degli Stati Uniti o in quale stato si trovi ad essere il nostro mondo. Ciò che conta davvero è che continuiamo a conversare. Questo dialogo potrebbe anche cadere più volte nel vuoto. Ma dobbiamo continuare lo stesso ad alimentarlo.