Ricordando nel 1981, da New York dove si trovava,  Nadežda Mandel’štam, appena scomparsa a Mosca, Iosif Brodskij osservava come per quella donna all’apparenza fragile, costretta per decenni a una vita raminga, «lo status di persona non realizzata» fosse diventato alla fine «una seconda natura». Questo mancato compimento delle proprie potenzialità individuali era da ascriversi – secondo lui – a un dato innegabile: degli ottantuno anni della sua lunga esistenza Nadežda Jakov’levna Chazin ne aveva trascorsi diciannove come moglie «del più grande poeta russo di questo secolo, Osip Emil’evič Mandel’stam» e ben quarantadue come sua vedova – «il resto», concludeva Brodskij, «fu infanzia e adolescenza». Che egli considerasse Nadežda Jakov’levna «non realizzata» è tanto più sconcertante se si tiene conto del fatto che conosceva certamente almeno i primi due volumi delle sue sterminate memorie. Definirle – come Brodskij fece nel suo necrologio – l’opera raffinata di un ventriloquo attraverso cui riviveva la poesia dei reietti Mandel’štam e Achmatova era lusinghiero, ma al tempo stesso riduttivo. Da quelle pagine emerge infatti non solo l’eco lirica lontana che, secondo Brodskij, era diventata per l’autrice una autentica «norma linguistica», ma anche e soprattutto la voce personalissima di una donna che, dopo innumerevoli peripezie, riesce finalmente a esprimere se stessa attraverso la scrittura.

Non meno peculiare è l’intonazione sarcastica che rende uniche le sue osservazioni, fondamentali per penetrare nelle dinamiche del terrore staliniano, nonché nel funzionamento di quella che lei stessa definiva la «macchina a raggi X della sorveglianza reciproca». Pubblicata con il titolo L’epoca e i lupi da Garzanti nel 1971, sull’onda della sensazione destata dal trafugamento in Occidente del manoscritto inedito, la prima parte di queste memorie viene riproposta ora da Settecolori nella medesima, eccellente traduzione di Giorgio Kraiski, ma ribattezzata Speranza contro speranza (pp. 656, € 28,00), in ossequio al titolo ideato dalla curatrice dell’edizione inglese Clarence Brown.

In effetti, quello della speranza – o, meglio, del suo progressivo abbandono – è uno dei temi essenziali del libro, a partire dall’ovvio gioco di parole con il nome dell’autrice. «Come mai all’inizio di un secolo fratricida mi hanno chiamata Nadežda, cioè Speranza?» si chiede. L’interrogativo rimbomba con sempre maggior insistenza nella sua mente, da quando si compie quell’evento fatale che introduce nella sua esistenza una cesura, ovvero la partenza forzata da Mosca in seguito al primo arresto del marito nel maggio 1934. È emblematico come Nadežda Jakov’levna non indugi retrospettivamente sulla loro vita in comune precedente l’esilio a Voronež se non in brevi, incidentali flashback: la narrazione ha inizio ex abrupto con lo schiaffo dato da Mandel’štam allo scrittore stalinista Aleksej Tolstoj – un gesto che, inizialmente, viene interpretato come l’origine di tutte le sue disgrazie. Tuttavia l’ipotesi si rivelerà infondata non appena trapelerà la notizia che gli inquirenti dispongono del testo dell’epigramma su Stalin, mai messo per iscritto dall’autore, e quindi evidentemente fornito loro da un delatore appartenente alla cerchia amicale della coppia.

Mandel’štam non avrebbe mai cercato di appurare l’identità dell’informatore, persuaso che la rovina fosse comunque inevitabile, una fatalistica convinzione si trasmette anche alla moglie: «Mandel’štam guidava imperiosamente la sua vita verso la fine in agguato». Inaccettabili per l’epoca erano non soltanto i versi sul «montanaro del Cremlino», ma anche la granitica convinzione del loro autore che i poeti fossero i veri potenti di questa terra, in quanto mossi da una necessità indifferibile: «Mandel’štam si comportava come un potente e questo valeva ad aizzare coloro che lo stavano distruggendo». Se retrospettivamente Nadežda Jakov’levna spiega l’insolita chiarezza dello sciagurato epigramma con la volontà del marito «di non uscire dalla vita senza aver scritto parole inequivocabili su quanto avveniva davanti ai nostri occhi», d’altronde la sua fine si inscrive in un paradigma più ampio: «La morte di un artista non è un semplice caso, ma il suo ultimo atto creativo che, come un fascio di luce, ne illumina il cammino vitale», afferma, con parole prese dal consorte.

Tuttavia – e qui emerge tutto il suo temperamento volitivo – l’autrice spiega come l’accettazione di quel piano inclinato che porterà Osip Emil’evič alla morte per inedia nel campo di transito di Vtoraja Rečka il 27 dicembre 1938 non fosse altro che la manifestazione di uno stato morboso di debolezza: «Noi tutti eravamo o pecore che si lasciano condurre al macello, o dei rispettosi aiutanti del boia. In ogni caso, compivamo prodigi di docilità. Perché mai, per esempio, non abbiamo rotto il vetro della finestra e non siamo saltati fuori?» si chiede, ripensando al secondo arresto, quello decisivo del maggio 1938. Una passività dovuta, secondo l’autrice, non alla paura (all’epoca già scomparsa, insieme alla speranza), ma a una consapevolezza paralizzante della propria impotenza, equiparabile a una vera e propria malattia. La sua grandezza morale risiede proprio nella spietatezza con cui ammette ripetutamente il proprio perdurante stato di malata: «Non si passa indenni attraverso una vita simile. Il nostro equilibrio psichico è turbato. A che servono dei testimoni così?»

Dubbio immediatamente smentito dalla qualità letteraria di alcuni dettagli, che danno forma ad altrettante, fulminanti micronarrazioni: dalla tavoletta di cioccolata lanciata da una donna a un convoglio di deportati, all’immagine della stessa autrice che, operaia tessile, durante il turno di notte corre su e giù per il reparto, mormorando i versi del marito per non dimenticarli. Alla memoria di Nadežda Jakov’levna, nonché alle copie da lei disseminate nei nascondigli più improbabili, si deve infatti il salvataggio di gran parte dell’opera di Mandel’štam, poeta refrattario alla scrivania, che non metteva mai nulla per iscritto e componeva camminando, nel tentativo di «ricordare cose che non erano mai state dette». L’esistenza esclusivamente sonora e volatile di versi che non solo non venivano pubblicati, ma neppure fissati sulla carta, è dunque uno dei leitmotiv che riunisce i due coniugi al di là del baratro spalancato dalla morte. Ma se la figura di Osip Emil’evič rimarrà per sempre legata al «concentrato borbottio» di quando «scriveva con le labbra», per Nadežda Jakov’levna alla ripetizione di poesie sussurrate subentrerà – non appena la situazione politica lo renderà possibile – l’urlo di una testimonianza finalmente incurante di qualsiasi considerazione precauzionale: «No, ho deciso che bisogna urlare. In questo miserevole urlo sono concentrati gli ultimi resti della dignità dell’uomo. Con l’urlo egli dà notizie di sé al mondo dei liberi, invoca aiuto e chiama alla resistenza. Se non rimane altro, bisogna urlare. Il silenzio è un autentico delitto contro il genere umano».