«Le forze armate del Myanmar sono in grado di produrre, all’interno del Paese, una varietà di armi che vengono poi utilizzate per colpire i civili» che si oppongono ai militari al potere. Il tutto, grazie a macchinari, software e materie prime, provenienti da aziende «anche a partecipazione statale, legalmente domiciliate» in Italia, Francia, Austria, Germania, Giappone, Singapore, India, Israele, Corea del Sud, Corea del Nord, India, Cina, Ucraina, Russia e Stati Uniti. È la denuncia contenuta in un dettagliato report diffuso ieri dal Consiglio consultivo speciale sul Myanmar, formato da ex alti funzionari delle Nazioni Unite. Tra questi Yanghee Lee (ex relatore speciale Onu sui diritti umani in Myanmar), Chris Sidoti e Marzuki Darusman (della missione internazionale indipendente di accertamento dei fatti avvenuti nel Paese dell’Onu). Nell’ex Birmania «non ci sono aziende private produttrici di armi».

Quindi, tale industria «è un affare gestito dai militari», tramite la Direzione delle industrie della difesa dell’esercito del Myanmar (Ddi). Comunemente denominate KaPaSa (dal nome birmano del Ddi, Karkweye Pyitsee Setyone), molti di questi stabilimenti «furono inizialmente fondati negli anni ‘50 con il supporto tecnico della Germania Ovest e dell’Italia». L’ex Birmania è sottoposta a sanzioni internazionali fin dalla repressione militare contro la rivolta a favore della democrazia del 1988. Misure inaspritesi dopo il colpo di Stato militare del febbraio 2021 (oltre 2.600 vittime stando ai numeri ufficiali, che potrebbero essere dieci volte di più). Attualmente «le forze di sicurezza sono armate con una varietà di armi da fuoco prodotte localmente, inclusi fucili di precisione, fucili semiautomatici MA-14, un replica degli Uzi BA-93 e mitragliatrici BA-94».

Ma anche mirini ottici per lanciarazzi, bombe a guida di precisione, granate a razzo antiuomo, sistemi di artiglieria di grosso calibro e di difesa aerea, missili e loro lanciatori. Tutte armi, spesso prodotte anche a «licenze scadute o inesistenti», usate «per assassinare i manifestanti» o «negli attacchi diffusi e sistematici dell’esercito contro obiettivi civili». Le materie prime necessarie, sempre secondo il report, arrivano dalla Cina e più di recente dall’India (essendo queste ultime ritenute di migliore qualità) e «Singapore funge da punto di transito». Ci sono poi le «macchine prodotte da società legalmente domiciliate in Austria, Germania, Giappone, Taiwan e Stati Uniti attualmente utilizzate dall’esercito del Myanmar nelle sue fabbriche di produzione di armi». Oltre a «vari programmi software realizzati da società legalmente domiciliate in Francia, Israele e Germania attualmente utilizzati negli stabilimenti KaPaSa per il funzionamento di alcune delle macchine».

Per queste ultime, «Taiwan funge da importante punto di transito per l’acquisto, anche da produttori europei» e per la loro manutenzione. Per il Consiglio consultivo speciale sul Myanmar «l’assenza di sanzioni taiwanesi sul Myanmar sembra faciliti questo tipo di transazioni e spedizioni da e verso il Myanmar per l’esecuzione di manutenzioni critiche». Per Cecilia Brighi, segretaria generale dell’associazione Italia-Birmania Insieme «Cina e Russia, grandi fornitori di armi alla giunta, continuano a porre il veto sull’approvazione dell’embargo totale sulle armi. Ma vi è anche la acquiescenza complice di imprese e di governi, che chiudono gli occhi sugli indicibili affari di alcune loro aziende. Sarebbe importante sapere ad esempio che ruolo ha l’italiana Danieli, visto che il colosso italiano, specializzato nella costruzione e ammodernamento degli impianti siderurgici, tutti di proprietà militare, si è registrata nuovamente nel Paese il 24 settembre 2021».