La componente italiana della mostra curatoriale della Biennale d’Arte 2019 è non soltanto declinata al femminile come quasi tutta la partecipazione selezionata per May you live in interesting times da Ralph Rugoff, ma è addirittura torinocentrica. Infatti sia Lara Favaretto sia Ludovica Carbotta sono nate nella capitale sabauda, a distanza di un decennio l’una dall’altra, e lì si sono formate e hanno mosso i primi passi nel mondo artistico.
Curiosamente, Ludovica Carbotta è a Torino quando la intercettiamo al telefono proprio alla vigilia dell’inaugurazione alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di uno dei frammenti del work in progress sinestetico Monowe che sarà presentato a Venezia in modo espanso e che sta occupando la produzione dell’artista dal 2016.

PENSANDO A THOREAU
Ispirato alla lettura di Thoreau, ai nuovi riti e miti della fantascienza e alle utopie architettoniche e sociologiche contemporanee, Monowe è la personalissima invenzione di una città in divenire abitata da un solo abitante. Una città che nel suo farsi -, novità – nel suo disfarsi, costruzione e rovina, capitolo per capitolo, contiene tutti i servizi possibili: dalle istituzioni culturali come il museo alla fabbrica, fino all’attuale tribunale, realizzato con la collaborazione del Collettivo Orizzontale per la mostra torinese ed attualmente impegnato anche a Venezia. «La mia opera si formalizza in diversi modi – spiega Carbotta -. Lavoro molto con la scrittura performativa, spesso va di pari passo con la stessa elaborazione dell’opera; Monowe è una riflessione sull’auto-isolamento dell’individuo nell’età contemporanea. Cerco di capire il rapporto che si instaura tra individuo e spazio cittadino, anche su basi di esperienza personale».
L’installazione alla Fondazione Sandretto è a cura di Irene Calderoni ed è visitabile fino al prossimo 6 ottobre. Dunque, quello di Carbotta alla Biennale è un debutto assoluto come il suo progetto che sarà posto in due luoghi distinti della Laguna: «La prima avrà una collocazione esterna all’Arsenale e la seconda ha come sito la Polveriera di Forte Marghera».
Gli studi e i viaggi le hanno consegnato una curiosità ed un’apertura inquieta verso l’arte del Novecento. Mentre la contemporaneità è vissuta dall’artista torinese a stretto contatto con la capacità di incrociare tutte le possibili esperienze oggi a disposizione, non fermandosi al solo «manufatto» artistico, ma creando intorno ad esso l’evento.

MONDI SENSORIALI
«Sono stata influenzata da scultori e artisti come Gordon Matta – Clark, Edoardo Paolozzi, Bruce Nauman e Rachel Whiteread». «La chiamata di Rugoff – continua – mi è arrivata grazie alla Fondazione Sandretto cui aveva chiesto uno studio-visit. Poi c’è stato uno scambio di mail e successivamente è arrivato l’invito ufficiale. Conoscevo Rugoff solo per le mostre che organizzava alla Hayward Gallery. Ho vissuto per un lungo periodo a Londra, prima di trasferirmi a Barcellona. Dove tutt’ora vivo».
A Venezia, l’elaborazione concettuale di Monowe avrà un dispositivo plurisensoriale, l’uso dei materiali è eterogeneo ed è sotteso al processo costruttivo della struttura, immaginativa, fittizia, ma che in realtà ha tutte le condizioni per essere una città reale: «nell’impiego per l’appunto di gesso, silicone, calchi in plastica, cemento, pvc, Monowe è un unicum, soltanto che è svolto in frammenti. Ogni sua singola parte, ogni singola istituzione con le sue regole, leggi e norme, viene vissuta e messa in discussione dallo stesso solo abitante. Accadrà anche alla Biennale. La mia, in fondo, è un’operazione filosofica, un’architettura della mente che si proietta come parte del corpo dell’abitante».