In questi giorni è invocata da tutti, tanto da sembrare quasi un feticcio. L’educazione sessuale e affettiva nelle scuole è una delle richieste centrali dei movimenti femministi e delle forze progressiste del paese, ma viene agitata come facile soluzione anche dalle parti del ministero dell’Istruzione. «Saranno i ragazzi stessi a salire in cattedra» ha spiegato infatti Valditara in merito alla circolare attesa in questi giorni che dovrebbe istituire dei «corsi di formazione per la parità di genere» che dureranno, forse, fino al 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza maschile sulle donne.

«Non mi stupisce che il ministro proponga un modello peer to peer, una metodologia che ha dei pro e dei contro ma che sicuramente risponde all’esigenza governativa principale, quella di fare educazione sessuale a costo zero» spiega Monica Pasquino al manifesto. Pasquino è presidente della rete nazionale “Educare alla differenze”, un progetto che da dieci anni connette le tante realtà associative impegnate nei progetti di educazione sessuale e affettiva nelle scuole di ogni ordine e grado.

«L’educazione al rispetto che in molti giustamente richiedono in realtà già si fa, il problema è che andrebbe sostenuta ed estesa. La proposta ministeriale, per quello che se ne sa fino ad ora, non pone le basi per costruire nulla di credibile e duraturo. Quando si lavora con i ragazzi e le ragazze non si può improvvisare».

Come funzionano questi progetti attualmente, come si recuperano i fondi?
La proposta può venire da fuori, da un’associazione che prende contatto con la scuola, ma ultimamente sono sempre più spesso docenti o dirigenti scolastici a cercare sul territorio realtà che si occupano di questo. Poi si passa dal consiglio d’istituto. Per quanto riguarda i fondi possono essere di due tipi: o c’è un budget che la scuola sceglie di destinare a queste iniziative oppure sono soldi provenienti da bandi pubblici, locali, regionali o addirittura europei. Il grande problema di questo sistema è che non garantisce al continuità. Un anno i soldi ci sono e l’anno dopo no. E questo inficia molto il lavoro che si fa con gli studenti.

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Quali sono i problemi che riscontrate più spesso nel portare avanti queste iniziative?
Di solito il grande scoglio iniziale è la paura che la scuola sia presa di mira perché fa dei progetti “gender”, ma è una dinamica più che altro pubblica e comunicativa, poi quando ci si cala nella realtà raramente qualcuno pone il problema, anzi sono anche i genitori a chiedere aiuto. La cultura della scuola è cambiata, soprattutto dopo la pandemia, c’è più consapevolezza del bisogno di un aiuto esterno per affrontare il tema del benessere degli studenti e delle loro relazioni.

C’è una diversa consapevolezza anche tra gli studenti nella sua esperienza?
Alcune cose sono abbastanza sdoganate tra i ragazzi, come la lotta all’omofobia, la possibilità di scegliere il proprio orientamento, la propria identità di genere. Questo però non vuol dire che ci sia un avanzamento per quanto riguarda le relazioni consensuali, vero grande tema: il controllo, l’uso dello smartphone come forma di controllo, la gelosia, questa è una dimensione della vita relazionale sentimentale tra pari a cui diamo tanto spazio, perché è la dove si esprimono tantissime fragilità.

Quanti progetti di educazione vengono svolti ogni anno?
Non ci sono dati complessivi, noi come “Educare alle differenze” attraversiamo migliaia di scuole in tutta Italia. C’è però un dislivello importante tra nord e sud. Nelle regioni del meridione i progetti sono ancora pochi ecco perché quest’anno faremo la nostra due giorni di formazione per i docenti a Bari, il 23-24 settembre.

Il decreto Caivano può avere qualche effetto?
Rischia di essere controproducente. Con i minori non si può agire così, le parole d’ordine dovrebbero essere prevenzione e recupero. Quello che serve è creare circoli virtuosi tra scuola, associazioni ed enti territoriali. È importante che la scuola non rimanga isolata, in quanto prima agenzia di socializzazione che i bambini incontrano. È lì che insegnamo a essere democratici, ad avere relazioni basate sul consenso e, almeno si dovrebbe, ad essere antifascisti.