Chi si aspettava che l’ingresso di una donna a Palazzo Chigi mettesse ordine sul senso e l’uso di alcune parole al femminile è rimasto disorientato. Se infatti la realtà è composta da due e più generi, come ci dimostrano continuamente le comunità Lgbtqia+, siamo di fronte a una realtà articolata e sempre più complessa da declinare. E il suo racconto ci ricorda di continuo che dovremmo essere capaci di usare le parole per nominare correttamente cose e fatti.

“Ciò che non si nomina non esiste, ciò che si nomina scorrettamente, distorce la realtà e crea un senso comune, una cultura distorta. Costruisce stereotipi”, spiega in occasione dell’8 marzo Roberta Lisi, giornalista con interessi nel campo della comunicazione politica ed economica, collaboratrice di collettiva.it (Cgil) e attenta alle tematiche dell’emancipazione femminile come coordinatrice dell’associazione Giulia (Lazio). “Ad esempio dire: ‘il presidente del Consiglio si è recata’ non solo è un obbrobrio grammaticale, è una descrizione distorta ed errata della realtà. Ma che corrisponde, appunto a uno stereotipo antico come antica è la cultura patriarcale che ci attraversa. Nella sfera pubblica, come in quella del lavoro, i ruoli di potere o le professioni ‘importanti’ vengono – troppo spesso – declinati al maschile anche quando a ricoprirli sono donne. Maschile, badate bene, non neutro, perché tradizionalmente quei ruoli erano occupati da uomini”.

L’Accademia della Crusca a un certo punto ha avvertito l’esigenza di tracciare delle linee guida per l’uso del genere nel linguaggio ai fini “di un pari trattamento nell’ambito di leggi e atti organizzativi – spiega Lisi – nonché nell’attribuzione dei titoli funzionali accademici, professionali, istituzionali od onorifici, concorrendo così alla rimozione dei pregiudizi e degli stereotipi di genere. Il punto è proprio questo, utilizzare il femminile per nominare incarichi e ruoli ricoperti da donne significa affermare che la realtà è composta da due generi e che anche ‘il potere’ può e deve essere anche delle donne che rompono il tetto di cristallo per sé e per le altre. La presidente, la ministra, la sindaca”.

Un simile ragionamento “vale anche per il mondo del lavoro. Medico, infermiera, maestra, professore: il mondo delle professioni è descritto al maschile mentre le funzioni “ancillari” o di cura hanno una declinazione al femminile. Occorre inoltre riflettere sul fatto che quelle mansioni a predominante ‘mano d’opera femminile’ in genere sono pagate meno”. Così nella manifattura gli operai metalmeccanici sono retribuiti di più delle operaie tessili. E, ancora, nel pubblico impiego le retribuzioni delle mansioni afferenti al lavoro di cura, dalle operatrici dei nidi alle assistenti sociali, sono tra le più basse del comparto. Ed ecco svelata una – certo non tutte – delle ragioni del cosiddetto “gender gap”.

Sta proprio alle stesse donne nominarsi e far in modo che altri utilizzino correttamente le parole. “Non è solo una questione di grammatica, un capriccio o un vezzo – conclude Lisi – è uno dei modi per contribuire alla rottura di stereotipi e alla costruzione di una nuova realtà, effettivamente fondata su generi diversi”.