A ieri negli Stati uniti erano stati registrati già 23 milioni di voti (fra schede inviate per posta e quelle compilate negli stati che permettono il «voto anticipato» nella settimana che precede l’elezione). Solo in Texas e Florida hanno votato in 6 milioni – numeri da affluenza record in queste elezioni di mid-term, primo voto dell’era trumpista.

Sempre ieri, nell’istruttoria di Pittsburgh, Robert Bowers, l’autore della strage nella sinagoga Tree of Life si è dichiarato «non colpevole». Contemporaneamente in un comizio Donald Trump ha ancora insinuato la dietrologia che vorrebbe George Soros finanziatore della carovana di migranti – sostanzialmente la motivazione addotta dallo sparatore per fare strage di ebrei presumibilmente “mandanti” dell’«invasione» del paese.

 

Pittsburgh, ieri i funerali delle vittime della strage nella sinagoga, con proteste anti Trump (Afp)

 

L’inquietante sintonia complottista fra stragista e presidente degli Stati uniti rammenta gli slogan neo nazisti risuonati a Charlottesville («gli ebrei non ci rimpiazzeranno» – Jews will not replace us) e racchiude la paranoia bianca aizzata ad arte da Trump. D’altra parte le demonizzazione dei “fiancheggiatori buonisti” – da Pittsburgh a Riace – è strumento prediletto per fabbricare consenso nazional populista.

L’invasione dei migranti è quindi narrazione prevalente cavalcata con crescente frenesia in queste batture finali della campagna, per ultimo con la proposta di abolire lo ius soli. In America questo comporterebbe l’abrogazione del 14mo emendamento, un atto quasi certamente incostituzionale e sicuramente non attuabile per decreto come ha prospettato Trump. Al solito però è stato sufficiente piantare il seme del dubbio per impadronirsi del news cycle e dirottare l’apparato social-giornalistico sulla distrazione del nuovo contenzioso.

Stesso discorso per la mobilitazione dei 5000 soldati (con opzione di ulteriori 10000) sul confine col Messico, un reggimento che parte per una guerra destinata ad esistere solo nelle immaginazioni surriscaldate degli oltranzisti identitari. I soldati non potranno infatti venire adibiti a mansioni che non siano di supporto logistico (autisti, manutenzione, pulizia, eventuale consulenze legali). La realtà è che se il gruppo di profughi, attualmente ancora a 1000km dalla frontiera, dovesse effettivamente raggiungere il varco di Tijuana, produrrebbe al massimo, come l’ultima “carovana” giunta a fine aprile, qualche centinaio di domande d’asilo presentate alle autorità di frontiera e altrettante detenzioni (con relativi “sequestri” dei minori).

Un cinico teatro delle crudeltà dato che per Trump l’utilità politica dei migranti è destinata ad esaurirsi martedì prossimo, dopo essere serviti a montare il panico nativista a favore dei candidati a lui fedeli.

 

Donald Trump durante il comizio di mercoledì 31 ottobre in Florida (Afp)

 

Ancora ieri sono stati pubblicati sondaggi che confermerebbero favoriti i democratici per una nuova maggioranza alla camera e probabile una tenuta repubblicana al senato. In questo contesto Trump non sembra occuparsi tanto di influire sui moderati quanto consolidare lo zoccolo duro oltranzista. Il calcolo, per un presidente che dal conflitto deriva il carburante politico, sembra insomma essere di esacerbare lo scontro frontale per i prossimi due anni e giungere alle presidenziali con la base montata al massimo del fanatismo, senza curarsi troppo di effetti collaterali spiacevoli come le stragi o le bombe spedite per posta.
In una società non omogenea e multiculturale come quella americana è un gioco pericoloso di piromania sociale che potrebbe facilmente esacerbare le volatili tensioni sotterranee oltre i livelli di guardia. C’è palpabile ormai, in questa campagna politica, la sensazione di essere vicini al limite di sopportazione e della funzionalità stessa di una democrazia dirottata da un demagogo senza scrupoli sul terreno dello scontro emozionale a oltranza. E diventa lecita la domanda su come la nazione potrà sopravvivere al trumpismo e arretrare dall’attuale livello di scontro.

Il voto di martedì dovrà fornire una indicazione sulla reattività delle “parti sane” della democrazia Usa dopo due anni di nazional populismo col suo colossale raddoppio sulla linea retrograda e antimoderna. Due anni di nazionalismo contro le migrazioni e dazi contro il commercio globale, di carbone contro la delocalizzazione tecnologica e rimozione del mutamento climatico, di una monumentale abdicazione cioè dalle problematiche mondiali che trova ora controparti da Brasilia a Mosca e che costituisce una minaccia esistenziale nel momento in cui stanno per scadere i tempi utili per trovare reali soluzioni politiche.