Michael E. Mann è tra i più importanti climatologi al mondo. Il suo lavoro, in particolare il famoso grafico della “mazza da hockey” che illustra un picco di temperatura nel ventesimo secolo dopo 900 anni di clima stabile, è stato per anni al centro di attacchi da parte della macchina negazionista climatica al cui centro ci sono le compagnie di combustibili fossili e le lobby.

Attraverso finanziamenti, propaganda e manipolazioni mediatiche i negazionisti hanno messo in atto una campagna di disinformazione sul clima allo scopo di ritardare e ostacolare l’azione politica su questo tema. Ho intervistato Mann, che oggi ha raccolto la sua esperienza in un libro, La nuova guerra del clima (Edizioni Ambiente), per parlare delle nuove strategie dei negazionisti, rinominati da lui “inattivisti”, e di come riconoscerle e disinnescarle per orientarsi verso un percorso d’azione sul clima costruttivo ed efficace.

Il negazionismo climatico si è evoluto e negli anni le strategie sono cambiate. Una delle strategie iniziali, menzionata nel suo libro, era quella di “riposizionare il riscaldamento globale come una teoria” piuttosto che un fatto. Quali sono le attuali strategie dei negazionisti e cosa risponde a chi dice che il negazionismo del clima non esiste più?

Esiste in una forma diversa. Non è il tipo di negazionismo duro che abbiamo incontrato in passato: “Il cambiamento climatico è una bufala, il pianeta non si sta scaldando”. Questo tipo di argomentazione non è più credibile perché la gente può vedere e sentire l’impatto del cambiamento climatico nella propria vita. E così quello che abbiamo osservato è un cambiamento nelle tattiche, più lontano dal negazionismo assoluto e verso altre dimensioni: ritardare, dividere, deviare, catastrofizzare…Le forze dell’inazione o gli inattivisti, come li definisco nel libro, gli inquinatori e coloro che li difendono, sono passati a queste altre tattiche con l’obiettivo di impedirci di andare avanti (nell’azione per il clima, nda), che è l’unica cosa che gli interessa. Come qualcuno che è stato in prima linea nelle guerre climatiche per più di due decenni e ha visto queste tattiche evolversi, lo scopo del mio libro è condividere le mie osservazioni in modo da offrire una difesa rispetto a queste nuove tattiche, che sono l’unica cosa che ora blocca il nostro percorso.

Un vaporetto arenato dopo la super acqua alta a Venezia nel 2019, foto Ap

 

Quindi considera l’inattivismo un’altra forma di negazionismo?

Lo vedo come cugino stretto del negazionismo. Non è più il negazionismo dell’evidenza del cambiamento climatico, ma il negazionismo dell’urgenza, il negazionismo della consapevolezza di poter fare qualcosa, il negazionismo che possiamo agire. E così, sotto molti aspetti, queste altre parole che sto usando, deviazione, divisione, ritardo, sono tutte cugine strette del negazionismo, una forma più morbida di negazionismo concentrata sull’azione.

Ha menzionato la deviazione. In queste ultime settimane qui in Italia il dibattito sull’energia nucleare si è riacceso perché il nostro ministro dell’ambiente ha fatto alcune dichiarazioni pubbliche e la faccenda è stata ripresa e, a volte amplificata in modo irresponsabile, sui media. Pensa che trasformare la conversazione sul cambiamento climatico in un dibattito sul nucleare sia una deviazione, una manovra di distrazione?

Sì. Ci sono persone che credono onestamente che questa sia un’importante fonte potenziale di energia. E io lo rispetto. Ma altri cercano di manipolare l’opinione pubblica, usando l’energia nucleare come un modo per farlo. Questo [meccanismo] è riassumibile nel detto “il nemico del mio nemico è mio amico”: [per i negazionisti] più sostegno forniamo all’energia nucleare, meno sostegno stiamo probabilmente fornendo per aumentare l’energia rinnovabile. Ma è l’energia rinnovabile a rappresentare la vera minaccia all’energia fossile. È una tattica per impedire questa necessaria transizione: dall’energia da combustibili fossili verso le energie rinnovabili. [Il dibattito sul nucleare] fa leva sulle guerre culturali conservatrici, i conservatori hanno capito che questo è un ottimo modo per creare divisione e opposizione alle energie rinnovabili.

Una delle strategie negazioniste e delle campagne di deviazione più efficaci è stata quella di reindirizzare la responsabilità a livello individuale. Lei ne parla molto nel suo libro. Uno spot pubblicitario degli anni ’70, detto “l’Indiano che piange”, è uno dei punti di partenza per questo tipo di narrazione. Come ha influenzato il modo in cui percepiamo la responsabilità legata all’inquinamento, al cambiamento climatico e alle questioni ambientali oggi?

Sì, “l’Indiano che piange” è brillante. Quando stavo crescendo ricordo questa pubblicità e l’impatto profondo che ha avuto su tutta la mia generazione. […] Siamo stati tutti ingannati perché non ci rendevamo conto che stava cercando di spostare la responsabilità dalle soluzioni sistemiche al comportamento individuale. Quello che stava realmente accadendo era che la Coca-Cola e l’industria delle bevande non volevano compromettere i propri profitti. E così hanno condotto questa massiccia campagna, straordinariamente efficace, per convincerci, senza essere espliciti, che tutto quello che dovevamo fare era essere più sostenibili e raccogliere le bottiglie e le lattine da terra. [Le forze dell’inazione] hanno utilizzato questa strategia ripetutamente, e l’industria dei combustibili fossili ha ricalcato le proprie strategie proprio su quel “manuale”. La British Petroleum, per esempio, ci ha dato uno dei primi calcolatori dell’impronta di carbonio individuale perché la BP, l’industria dei combustibili fossili, voleva che fossimo così concentrati sulla nostra impronta di carbonio da ignorare la loro.

Fridays for Future a Milano nel 2019, foto Ap

 

Ci sono anche molti problemi a livello comunicativo. In Italia su tutti ci sono la narrazione catastrofista, che ha menzionato prima, e il cosiddetto “resoconto equilibrato” per cui alcuni media considerati progressisti continuano a dare spazio a “prospettive” negazioniste. Qual è la sua opinione al riguardo? E come pensa che possiamo superare questi problemi?

C’è stato uno sforzo per strumentalizzare il pubblico più a sinistra. Ciò che è così insidioso nella nuova guerra del clima è che loro [i negazionisti] hanno già conquistato i conservatori e quindi è una grande vittoria se possono effettivamente portare i progressisti dalla loro. Ed è per questo che si vede lo sforzo di divisione: facendo sì che i progressisti combattano tra di loro, perché se sono divisi e discutono tra di loro non presentano un fronte unito chiedendo di agire sui politici e sugli inquinatori. Quella del resoconto equilibrato è davvero un’ottima osservazione ed è interessante perché, francamente, abbiamo ampiamente superato questa dinamica qui negli Stati Uniti, ma questo non significa che l’abbiamo superata ovunque. E queste battaglie vengono ancora combattute. Quando ho viaggiato in Italia, qualche anno fa, ho fatto una serie di conferenze e mi hanno dato un’idea della politica di negazionismo del clima. La mia sensazione era che c’è ancora questo residuo di contrarianismo. È davvero importante che gli scienziati e le organizzazioni amiche della scienza collaborino insieme ai giornalisti per aiutarli a navigare questo tema difficile.

Come ha detto lei, c’è anche il catastrofismo per cui individui che altrimenti sarebbero in prima linea, persone che si preoccupano profondamente del problema vengono convinte del fatto che è troppo tardi e si disimpegnano; questa è una grande vittoria per loro [i negazionisti]. Naturalmente, dovremmo tutti fare tutto ciò che possiamo per minimizzare il nostro impatto ambientale ma non possiamo permettere che questa venga inquadrata come la soluzione, quando in realtà toglie pressione alla politica, alle soluzioni sistemiche. Ed è per questo che è così importante riconoscere che le persone che sono diventate disilluse e disimpegnate, non sono il nemico. Sono state usate dal nemico. È importante far loro riconoscere che hanno la facoltà di agire, che ci sono cose che possiamo ancora fare e che non è troppo tardi.

Manifestazione di Extinction Rebellion a Londra nel 2020, foto Ap

 

Nel suo libro parla della soluzione non soluzione. Gran parte delle strategie e della narrativa dei negazionisti oggi è sulle soluzioni. Può dirci cos’è la soluzione non soluzione e come funziona questa strategia?

L’obiettivo qui – e sono le persone come Shellenberger o Lomborg, questa è la loro intera raison d’être – è quello di confondere le acque, di impegnarsi in una negazionismo più soft per cui si afferma di accettare la scienza, ma si sta effettivamente minimizzando l’impatto e la minaccia al punto che sembra ragionevole proporre soluzioni molto più moderate, molto meno onerose e dirompenti. “Basta solo limare gli angoli” o “basta solo usare il gas naturale perché è un combustibile fossile più amichevole”, come se un combustibile fossile possa essere una soluzione al problema, o la geoingegneria…E questo porta via gli investimenti dalla vera soluzione, ovvero le energie rinnovabili. Poi si parla molto in questi giorni di net-zero nel 2050 ma così si rimanda a decenni più in là, e questo non mette quasi nessuna pressione sui politici per agire ora. Il net-zero poi permette di proporre cose come la cattura del carbonio. In sostanza l’idea è: tutto tranne che risolvere il problema alla sua fonte, che è smettere di bruciare i combustibili fossili. La gente ora si aspetta che i politici facciano qualcosa, si rende conto che c’è una crisi. Così l’obiettivo degli inattivisti è quello di far sembrare che sì, fanno qualcosa, ma in realtà non fanno nulla per affrontare il problema alla radice.

Quali pensa siano alcune vere soluzioni?

Ci sono molte cose che possiamo fare, e i comportamenti individuali ne fanno parte, ma noi non possiamo fornire sussidi per le energie rinnovabili, non possiamo mettere un prezzo al carbonio, non possiamo bloccare nuove infrastrutture per i combustibili fossili. Solo i nostri politici, i nostri rappresentanti eletti possono farlo.

E questo significa che la cosa più importante che possiamo fare come individui è usare la nostra voce, esigere un’azione da parte dei politici, escludere i politici che non sostengono l’azione per il clima, votare i politici che si assicurano di agire. In definitiva, abbiamo bisogno di cambiamenti sistematici. Abbiamo bisogno dell’azione dei governi. Abbiamo bisogno che i paesi si facciano avanti.

È quello che lei si aspetta e spera sarà il risultato della COP26?

Sì, e questo dipenderà in parte dalla politica interna e dai singoli paesi. Questa battaglia dovrà essere combattuta in ogni paese in questo momento, compresa l’Italia, compresi gli altri paesi dell’Ue, compresi gli Stati Uniti, il Canada, la Cina. Dobbiamo ridurre le emissioni di carbonio. Dobbiamo arrivare a zero nel 2050, ma è tra 30 anni. Parliamo invece di dove dobbiamo essere entro un decennio. Dobbiamo ridurre le emissioni di carbonio del 50% entro il decennio. Ed è qui che entra in gioco la politica attuale. Non si può rimandare. Dobbiamo farlo ora…Dobbiamo continuare a fare pressione, anche su quei politici che pensiamo siano dalla parte giusta: questo non significa che siano disposti a fare ciò che serve, ciò che è necessario. Quindi dobbiamo tenere la pressione alta su di loro perché c’è ancora un’enorme quantità di pressione dall’altra parte, quella dell’industria dei combustibili fossili e i loro sostenitori.

Pausa nei lavori della Cop23 a Bonn nel 2017, foto Ap

 

Ne La Nuova Guerra del Clima lei parla anche di dinamiche come il meat-shaming e il flight-shaming. Cosa pensa del fear-messaging? Crede sia efficace?

Alcuni promuovono la narrazione per cui è troppo tardi ormai per prevenire il riscaldamento incontrollato e l’estinzione di tutta la vita sulla Terra. E questo è estremamente inutile. Possiamo già vedere impatti pericolosi del cambiamento climatico. Dobbiamo riconoscere che le cose brutte stanno già accadendo. Ma peggioreranno molto se non agiamo. Quindi riconoscere che c’è motivo di essere sconvolti per gli impatti che stiamo già vedendo non è una ragione per arrendersi in questa lotta.

E credo nella carota contro il bastone nel caso della carne, per esempio. Ci sono tante cose che ho fatto nella mia vita: il nostro piano elettrico è interamente da energia rinnovabile, ho un veicolo ibrido, mia moglie ora ha un ibrido plug-in. Non mangio carne. E sono felice di condividere le cose che ho fatto anche perché mi sento bene di averle fatte. Ma quello che non voglio fare è puntare il dito contro gli altri perché poi diventa solo un test di purezza.

Tutti noi dobbiamo fare delle scelte che ci permettono di vivere all’interno di un sistema che ora è imperfetto. Quindi la lotta è lavorare all’interno del sistema che esiste e cambiare quel sistema. La mia idea è cercare di convincere le persone a fare scelte più rispettose e sostenibili e dando l’esempio, ma non voglio dire loro che non si può più mangiare un hamburger o che non si può più volare, perché poi si otterrà un effetto boomerang. Proprio le forze dell’inazione stanno cercando di dividerci, facendoci puntare il dito gli uni contro gli altri.

È stato coinvolto personalmente in molti attacchi da parte delle “forze di inazione”, quale pensa sia la cosa più importante che ha imparato durante questi anni su come funziona il mondo dei negazionisti?

Questa è una grande domanda e direi che la risposta è: per loro, i fatti non contano. Non stanno cercando di vincere. Stanno solo cercando di creare confusione perché è tutto ciò che serve per far sì che la gente alzi le mani… L’altro modo di pensarla è che noi stiamo cercando di costruire qualcosa, mentre loro stanno cercando di abbatterlo. È una lotta asimmetrica. È sempre stato così, ma lo vediamo oggi, la malafede nel discorso sul clima è ora mutata in qualcosa di più grande: è la totale perdita di buona fede nel nostro intero discorso pubblico, fatti alternativi, fake news.

Quello che abbiamo oggi è un’anti-scienza generata intenzionalmente e, negli Stati Uniti, abbiamo un partito che è stato trasformato in un’arma dall’industria dei combustibili fossili e dai suoi alleati per fare i loro interessi negando letteralmente i fatti, sia che si tratti di affrontare la crisi del Covid-19 sia che si tratti di affrontare la crisi climatica… Penso che una dinamica simile si stia svolgendo anche in altri paesi… Trasformare la disinformazione in un’arma. Penso che questo sia il problema più grande che dobbiamo affrontare in questo momento, e l’inazione climatica è un ulteriore sintomo di questo problema.

Stella Levantesi, giornalista e fotoreporter, è autrice di I bugiardi del clima. Potere, politica, psicologia di chi nega la crisi del secolo, ed. Laterza