L’Italia firmerà la riforma del Mes anche se ancora non c’è annuncio ufficiale. L’Europa non mette fretta. «Non sarebbe appropriato indicare come la ratifica debba procedere in Italia. Pensiamo sia appropriato lasciare al governo e al parlamento il tempo necessario», spiega il presidente dell’Eurogruppo Pascal Donohe al termine della riunione che aveva in agenda appunto i «progressi della ratifica». Il presidente del Mes Gramegna, reduce dagli «incontri costruttivi» della settimana scorsa a Roma, suona la stessa musica: «Ora è tutto nelle mani del parlamento. L’Italia è una democrazia». Il commissario Gentiloni chiude il coro: «Sono fiducioso che il processo di ratifica andrà nella giusta direzione».

LA FELPATEZZA delle istituzioni europee, attente come mai prima a non dare l’impressione di forzare la mano con effetti controproducenti, conferma che l’intesa c’è e ormai è tutta questione di adoperare le modalità giuste. La strada individuata a Roma è quella di un ddl firmato da Giorgetti e Tajani, al quale cui spetta il compito di sottoscrivere la ratifica in quanto trattato internazionale, che impegna il governo a firmare la riforma specificando che tuttavia il governo stesso si impegna a non ricorrere a quel prestito. Senza dimenticare la conferma del no al Mes sanitario, che con gli abituali interventi dell’ex Fondo salva Stati in realtà ha poco a che vedere trattandosi di un prestito di 37 miliardi a condizioni vantaggiose in un settore disastrato come la Sanità. Ma tant’è. Sempre di Mes si tratta e basta la parola.

LA PARTITA PERÒ non è finita e non finirà neppure quando il ddl sarà stato vergato. Tajani, che ha il pregio della sincerità, lo dice a tutte lettere: «Se si chiede flessibilità sul Pnrr bisogna essere altrettanto flessibili». Non si tratta più di decidere se firmare o meno la riforma ma di mercanteggiare usando quella firma come moneta di scambio. Prima che il ddl approdi in parlamento, dove una parte della maggioranza, leghisti in testa, potrebbe farsi trovare con le lame già affilate, ci vorrà almeno un mese. In quel lasso di tempo Giorgia Meloni giocherà la sua partita cercando di ottenere dalla Commissione europea, in cambio della retromarcia sulla ratifica del nuovo Mes, il massimo sul tavolo parallelo del Pnrr. La diplomazia impone di non parlar chiaro ma l’obiettivo dell’Italia, giustificato con l’imprevista impennata del prezzo delle materie prime e non si tratta solo di un alibi, è palese: bisogna ridurre le opere previste, tagliare una parte dei lavori pubblici per 120 miliardi promessi da Draghi quando il quadro complessivo era tutt’altro. È anche necessario, ma questo non lo si può certo mettere nero su bianco, che i controlli periodici della Commissione sull’avanzamento dei lavori siano fatti con un po’ di duttilità, senza pretendere che l’Italia diventi di colpo, e in una fase tutt’altro che agevole, il contrario di quel che è sin qui stata: un Paese cronicamente incapace di investire i fondi europei.

NON È AFFATTO DETTO che il sì al nuovo Mes basti a garantire la flessibilità di Bruxelles nella misura ampia auspicata da Roma. Con la riforma dei trattati e le nuove misure anti-inflazione della Bce di mezzo i margini contrattuali dell’Italia sono comunque stretti. Ma di certo la sospirata firma sarebbe un argomento forte a favore dell’affidabilità del governo italiano e la carta avrebbe il suo peso nella partita del Pnrr. Certo, bisogna che la premier riesca a far ingoiare a tutta la sua maggioranza un passo obbligato ma indigesto per molti persino all’interno di Fi. Dal partito azzurro però c’è poco da temere. Ieri Berlusconi si è lanciato in un elogio di Meloni, «Sarà un buon premier. Non vedo altri che possano a lei paragonarsi», e in un giuramento di eterna lealtà al governo, con tanto di applausi vigorosi per il presidenzialismo.

Il Cavaliere, che ha invitato la presidente ad Arcore «e mi ha detto che verrà», insiste solo per «intensificare i rapporti». Insomma vuole più voce in capitolo ma sul Mes non ci saranno problemi e quanto a FdI basta e avanza la volontà della leader. I guai potrebbero arrivare solo dalla Lega, perché se la Meloni vincente non ci mette niente a convincere il suo partito, per il capitano nei guai vale il discorso opposto, tanto che Borghi ha già giurato che non voterà mai la riforma. Dunque il rischio che anche la Lega chieda una contropartita, magari sull’autonomia, c’è tutto. In fondo non è che la premier sia l’unica capace di mercanteggiare.