Se si chiudono gli occhi, e con accurata concentrazione, si può immaginare di essere nella sala del Berlinale Palast, sprofondati nelle sedie rosse comode in platea, o per chi arriva in ritardo in galleria, ascoltando prima dell’inizio i mille suoni di una sala. «Cosa mi manca di più? Vedere il film a cui ho lavorato anni sentendo la reazione dei corpi, quello che accade tra la gente che lo sta guardando» dice un regista. Per questo si dovrà aspettare il mese di giugno (9-20), la Berlinale 71 è ora alla sua fase online: niente pubblico, solo addetti ai lavori, immersi in maratone di un mondo parallelo da una stanza di casa. Strano? Si certo però di alternative non ce ne erano, non per ora almeno nell’anno I della pandemia di cui la chiusura della scorsa Berlinale coincise con l’inizio su scala mondiale, pochi giorni dopo eravamo in lockdown in Italia, e poi nel resto del mondo.

LA GERMANIA in lockdown piuttosto stretto ci sta ancora, fino al prossimo 7 marzo quando sono state annunciate alcune aperture, questo escludeva a priori un festival soprattutto come la Berlinale che muove moltissime persone e non solo dall’estero ma in città. È difficile pensare a un evento così radicato nel territorio come questo, al quale Berlino si prepara con anticipo e grandi aspettative: «L’inverno è lungo, non c’è molto da fare, la Berlinale è il momento in cui tutti si incontrano» dice una curatrice berlinese. Nel «vuoto» fisico rimane questo spazio virtuale che ha anch’esso una grande importanza. Per molti dei film in selezione è l’occasione finalmente di esistere, di incontrare un potenziale mercato, di iniziare un cammino – che è chiaramente da verificare vista la chiusura delle sale ma che è un passo in avanti. Hanno fatto bene perciò gli organizzatori – dai direttori Carlo Chatrian e Mariette Rissenbeek a accettare questa scommessa che non deve essere stata facile sotto nessun aspetto – compreso quello personale di un lavoro che dura un anno e che condividere davanti agli spettatori è la massima soddisfazione – con una selezione che a quanto si è visto finora è di qualità molto alta.

Eccoci dunque al primo titolo del concorso, Memory Box di Joana Hadjithomas e Kalil Joreige, una coppia di registi che dagli esordi nel 1999 (Around the Pink House) lavora cercando ciò che fonda una narrazione collettiva: immagini dimenticate, paesaggi umani e luoghi espulsi dalle inquadrature, rovine, tracce. Il riferimento che raccoglie questa loro ricerca, in cui si passa dal documentario alla finzione – due esempi: il magnifico Khiam 2000-2007 (2008), le voci dei prigionieri del campo di detenzione di Khiam, imprigionati durante l’occupazione israeliana del sud del Libano, o Je veux voir con Catherine Deneuve – è il loro Paese, il Libano appunto, dalla guerra civile che ha tracciato una cesura netta, stravolgendo esistenze e geografie, per dirci a ogni passaggio la necessità di continuare a dare voce a quanto è stato omesso dalle storie ufficiali. «Di solito sono i vincitori a scrivere la storia di un Paese o di una determinata epoca.

La guerra civile libanese non esiste nei libri di storia, gli storici, gli artisti, gli autori hanno provato a restituirne dei frammenti, in film o in documenti che cercano di testimoniare cosa è accaduto. Ma se non rimangono tracce del passato come si può vivere nel presente?» dicono i registi. È questa la domanda che pone e cerca di affrontare Memory Box – già dal titolo, «La scatola della memoria» – mescolando finzione e autobiografia, i loro ricordi e vissuti a partire dalla lettere che Joana Hadjithomas durante il conflitto ha scritto a un’amica emigrata a Parigi tra il 1982 e il 1988, da quando cioè avevano 13 anni ai 18.

E POI FOTOGRAFIE, cassette con le canzoni d’epoca, diari, giornali, la guerra che diviene più feroce ogni giorno e l’esplosione di vita di un gruppo di adolescenti che danzano, si scatenano (Cure e giubbotti di pelle) sfidando le bombe, la corrente che va via e interrompe la musica. E il primo amore grande e la ribellione ai genitori, a chi li vuole fermare, a quella guerra che questo è il loro modo di contrastare cercando di non farsi annichilire tra check point e violenza, disperazione e paura, le bombe che ti chiudono nei rifugi, la città devastata.

Maia (Manal Issa) ama Raja conosciuto un’estate, i suoi genitori non lo vogliono, dicono che è un miliziano. Il padre della ragazza combatte le armi e la violenza, è sopravvissuto a un attentato in cui è morto il fratellino, la madre è ansiosa, la casa è triste. I due ragazzi corrono in moto, ballano, fanno l’amore: Maja fotografa tutto, i palazzi con le mura bucate dalle pallottole, le amiche, gli amici, la macchina fotografica è sempre con lei per cogliere anche quei gesti che lì, in quella assurdità quotidiana, sembrano piccoli e forse sono i più importanti. Oggi Maia (Rim Turkic) è cresciuta, ha una figlia adolescente, Alex, quel tempo lo ha sepolto. Insieme alla madre, la nonna di Alex, vivono in Canada sotto alla neve, lei non fotografa più, quella scatola arrivata chissà da dove farà scoprire alla figlia molte cose della mamma e a Maja un po’ sè stessa. La memoria, e la sua «sensualità», è qui uno spazio al presente, è l’incontro di diverse generazioni in una famiglia rimasta al femminile, madri e figlie: è la trasmissione della propria esperienza e un diverso racconto del passato. Quell’archivio – su cui i registi hanno lavorato con soluzioni tecniche per inserirvi i personaggi – è uno strumento per la conoscenza, permette di scrivere una storia alla prima persona e insieme collettiva, da una prospettiva non astratta ma sentimentale, dalla voce di qualcuno che in quel momento ha la stessa età della ragazzina e può cercarvi così un rispecchiamento. Ma è anche un momento di formazione e di conoscenza reciproca, che reinventa i ruoli di madre e di figlia con una nuova complicità.

LA STORIA nel lavoro dei registi è qualcosa di concreto, un passato guardato con la necessità di elaborarlo, che ridefinisce il presente: un po’ come le foto rovinate che la protagonista ritrova in un vecchio rullino, l’immagine del padre morto ma anche la possibilità di colmare con una parola, e con le sue sfumature, i silenzi rimasti.