Doppio sgarbo, umiliazione su umiliazione. Prima l’estromissione dalla cena dei grandi, quella di mercoledì sera all’Eliseo. Poi il bilaterale a Bruxelles saltato all’ultimo momento, sostituito da un incontro di gruppo di Zelensky con altri sei capi di governo, al termine del quale il presidente ucraino e la premier italiana si sono solo intrattenuti faccia a faccia per alcuni minuti. Per Meloni una giornata nerissima.

Non è stato aggiunto alcun posto a tavola per la cena a tre dell’Eliseo di mercoledì sera, ospite Macron, illustri invitati Scholz e Zelenszy, Cenerentola di turno Giorgia l’Underdog: un’improvvisata che ha colto l’Italia di sorpresa e mandato fuori dai gangheri la premier. Tanto da farla contravvenire a un dogma della politica e della diplomazia: quello per cui non si palesa mai la rabbia impotente, non si ammette l’offesa se non si può reagire. Meloni invece sbotta: «Quell’invito è stato inopportuno. La nostra forza in questa vicenda sta nella compattezza».

È un passo falso che permette a Macron di infierire con una risposta da Ko: «Era il nostro ruolo. Germania e Francia hanno un ruolo particolare in questa vicenda. Poi spetta a Zelensky valutare i formati che sceglie». Il ministro Tajani, che in materia di diplomazia europea ha tutt’altra esperienza, aveva provato già a botta calda, mercoledì notte, a parare il colpo negando l’evidenza: «Non c’è nessun isolamento dell’Italia. Domani la premier vedrà Zelensky in un faccia a faccia». L’uscita si è però rivelata infelice, avendo Zelensky scelto «un formato» che declassa ulteriormente l’Italia, quello di un incontro di gruppo al limite dell’anonimato.

L’opposizione ci va a nozze e ciascuno spiega a modo suo la scelta di umiliare il governo italiano. Per la capogruppo Pd Malpezzi l’Italia «è sempre più isolata nel contesto internazionale perché il governo invece di fare politica pensa a Sanremo». Per il papabile segretario Bonaccini il fatto è che «se denigri per anni l’Europa, raccogli quel che hai seminato». Conte se la gode: «La pacchia è finita ma per Meloni, non per l’Europa». Moltissimi addebitano il fattaccio alle divisioni nella maggioranza. L’atlantismo della convertita di FdI sarà anche a prova di bomba, ma nella sua maggioranza ci sono Salvini e Berlusconi, sulla cui conversione restano invece valanghe di dubbi. Dagli spalti di governo e maggioranza il commento più autorevole, ma anche più livoroso, è di Matteo Salvini: «Spiace che Francia e Germania pensino di poter rappresentare da sole l’Europa. Senza l’Italia non si va da nessuna parte. Escludere non è utile né intelligente».

Propaganda politica a parte, la domanda sulle ragioni della scelta dei Paesi guida della Ue e del leader ucraino resta però inevasa. La “punizione” per l’alleanza con forze sospette di tepore nei confronti dell’Ucraina è poco credibile, dal momento che lo schiaffo alla leader italiana più radicalmente schierata con Kiev indebolisce lei e rafforza casomai proprio i frondisti. Più probabilmente hanno giocato altri e diversi fattori. Di sicuro ha pesato la tensione tra Roma e Parigi dai tempi dell’incidente della Ocean Viking: non è mai stata sanata e certo non ha agevolato la distensione la mancata risposta della presidente italiana all’invito di recarsi all’Eliseo dell’omologo francese. Poi, anche se né il presidente francese né il cancelliere tedesco lo ammetterebbero mai, è inevitabile la comune preoccupazione per una premier di estrema destra la cui popolarità è in crescita e che in tutta evidenza non costituisce una minaccia per l’Unione europea. Ottimo dal punto di vista dell’Unione stessa. Pessimo da quello di Paesi che devono fare i conti con forze simili all’interno e si capisce che temano il contagio.

È possibile che anche Zelensky ci abbia messo del suo, come fa capire Macron e come sembra confermare la scelta di un incontro bilaterale, dopo quello di gruppo, con il premier polacco ma non con quella di Roma. L’ucraino è uomo di spettacolo, sa benissimo che la scelta di non farlo salire sul palco di Sanremo non è affatto innocente e insignificante, tanto più con il sesto decreto sulla fornitura delle armi ancora al palo. In fondo aveva già strapazzato Mario Draghi dopo il primo dibattito parlamentare sulla guerra. Figurarsi se esita di fronte a Giorgia Meloni.