Il treno di Giorgia Meloni è partito da Varsavia a mezzanotte: arriverà in mattinata a Kiev dove è previsto per il primo pomeriggio l’incontro con Zelensky e probabilmente anche un colloquio con il primo ministro Shmyhal. Escluso invece un appuntamento volante con il presidente degli Usa che lascerà Kiev mentre arriva l’italiana. La richiesta da parte del presidente ucraino di dissipare le ombre addensate da Berlusconi è scontata come la risposta della premier italiana. Troverà quasi certamente modo di affermare forte e chiaro il contrario di quanto detto dall’alleato azzurro, escludendo ogni pur minima responsabilità ucraina nella guerra.

IN REALTÀ NEL COLLOQUIO di oggi quasi tutto è prevedibile sin nei particolari: si tratta di ribadire e mettere in scena il sostegno blindato dell’Italia. Il solo elemento in sospeso, certo non da poco, è l’eventuale invio di caccia da combattimento italiani. Sarebbe un salto di qualità determinante ed è possibile che l’ucraino avanzi la richiesta. La risposta, camuffata e indorata, sarà in quel caso negativa. Per il futuro, certo, non si può mai dire ma per il momento l’opzione sembra esclusa e anzi al ministero della Difesa sono imbufaliti con i giornali che ieri affermavano il contrario. Troppo alti i rischi di incidenti dalle conseguenze devastanti e anche di una spaccatura nella maggioranza: le armi «solo difensive» sono la linea del Piave di Berlusconi.

Non significa che i caccia non arriveranno a Kiev: l’Italia non si opporrà alla consegna degli aerei prodotti dal consorzio con Regno unito, Spagna e Germania, quello che produce l’Eurofighter Typhoon, «asse portante della protezione dello spazio aereo europeo» per riprendere il depliant. Perché gli aerei prodotti vengano inviati ad altri Paesi è necessario che nessuno dei 4 componenti del consorzio si opponga. L’Italia, oltre a fornire i sistemi di difesa antiaerea Samp-T, non lo farà. Oltre, per il momento, la premier non può andare. Sino a quel confine dovrebbe avere pochi problemi in una maggioranza che ha letteralmente invertito la rotta rispetto a quando l’attuale capogruppo Fdi Malan, allora azzurro, faceva l’osservatore in quelle elezioni del Donbass considerate adesso una farsa.

NELL’INCONTRO DI IERI con il premier polacco Morawiecki si è parlato naturalmente molto di guerra in Ucraina, con ampio scambio di riconoscimenti. La Polonia è il pilastro del radicalismo atlantico a est, l’Italia mira a occupare la medesima casella a ovest, più assonanti di così i due Paesi guidati dalla destra non potrebbero essere. Ma l’intesa non riguarda solo la guerra. Nelle dichiarazioni alla stampa al termine dell’incontro i due hanno esposto molto lucidamente e senza perifrasi la comune idea di Unione alla quale stanno attivamente lavorando: un’Europa che dimentichi «l’utopia di una Unione federalista» per edificare invece «l’Europa delle patrie», quella che non dimentica «le specificità nazionali»: insomma, sia pur detto con parole più garbate, il suolo e il sangue. Una Ue, specifica Meloni, fondata sul principio di sussidiarietà: «Non faccia Bruxelles quel che Roma e Varsavia possono fare da sole e faccia solo quello per cui Roma e Varsavia da sole non bastano».

IL POMO DELLA DISCORDIA, per l’asse Roma-Varsavia, dovrebbe essere l’immigrazione ma i due sanno come quadrare il cerchio: basta smettere di concentrarsi sul tema secondario, la distribuzione degli arrivi, per affrontare quello «primario», gli arrivi in sé. In effetti se non ci sono arrivi, grazie alla difesa dei soliti «confini esterni» e alla separazione drastica «tra immigrati e profughi», il problema non si pone…

È una visione dell’Unione opposta a quella sognata dai Paesi fondatori quella che Meloni e Morawiecki hanno in mente. Però, complice la crisi ucraina che ha moltiplicato il peso specifico dei Paesi dell’Est, non è affatto una chimera.