«Sono innocente, lo giuro sulla vita dei miei figli» afferma Gavin Williamson, il ministro dimissionario numero quarantadue del governo di Theresa May dopo il secco benservito ricevuto dalla premier per l’affaire Huawei. «Cerca di dare una dimostrazione di forza ora che non riesce a gestire Brexit o la politica interna», ha aggiunto, riferendosi alla premier. Ma per l’ormai ex-Defence secretary Williamson le cose potrebbero andare peggio: potrebbe aprirsi un’inchiesta penale.

Williamson è un velenosetto quarantenne già alleato di May e da colei designato a succedere a Michael Fallon (giocatosi a sua volta la cadrega nel 2017 per il suo ronzare attorno alle colleghe come un fastidioso moscone). Mercoledì sera, alla vigilia di una tornata di elezioni amministrative che prefigura i Tories asfaltati grazie alla loro Brexit performance, ha ricevuto il foglio di via dal governo per una spifferata al Daily Telegraph concernente l’opposizione di cinque ministri, tutti facenti parte del National Security Council – organismo di massima sicurezza nazionale istituito da David Cameron nel 2010 – alla decisione di May di appaltare al sinogigante informatico Huawei parte dell’infrastruttura 5G di imminente realizzazione in Gran Bretagna.

A succedergli in questo governo che gioca alle sedie musicali sarà Penny Mordaunt, che lascia il dicastero dello sviluppo economico: è la prima donna a ricoprire l’incarico, anche se parte già con i minuti contati.

Se ormai non fa alcuna differenza al governo zombie in carica, quest’ennesima fuga di notizie seguita da dimissioni è un colpo irreparabile per la carriera del giovine Gavin, che sognava Downing Street da prima della pubertà e si era offerto come pretoriano all’incombente ex-inquilina al numero dieci pur di poterle fare le scarpe alla prima occasione. La bile di Williamson – mi hanno fregato, sono vittima di una vendetta, ha sibilato – contrasta con la risolutezza di May a stendere un velo pietoso per potersi dedicare al Brexit-sfascio e con la determinazione del Labour ad aprire un’inchiesta penale sull’accaduto. Se ciò fosse, l’ex ministro rischia un paio di anni di carcere.

Com’è noto, i cacciatori di streghe del XXI secolo – opportunamente dimentichi della proprie privacy da tempo in mano a colossi privati in combutta con i servizi segreti americani – considerano Huawei poco più di una colossale (è il secondo produttore mondiale di smartphone dopo Samsung) cimice che spiattella i segreti del mondo libero al Partito comunista cinese. Trump è in mezzo a una guerra tariffaria con la Cina e si aspetta che nessuno degli appartenenti ai Five Eyes (asse d’intelligence spionistica anglofona: i cinque occhi sono quelli di Usa, Gran Bretagna, Australia, Nuova Zelanda, Canada) rompa le righe. Che il ministro della difesa in carica passi alla stampa indiscrezioni su meeting iper-riservati del comitato di difesa nazionale è effettivamente un po’ troppo, anche per un governo colabrodo come l’attuale. Sullo sfondo di questa storiella di ambizione e potere c’è l’ascesa di un nazionalismo dell’intelligenza artificiale innescato dalla paura statunitense di perdere la leadership assoluta in materia alla vigilia di un imponente aumento di scala della cosiddetta internet of things, che girerà appunto su frequenze poi 5G.

Williamson non sarà rimpianto da nessuno, nemmeno dentro il partito: alcune sue uscite recenti sono state imbarazzanti, come quando disse ai russi di «chiudere il becco e andarsene» dopo l’incidente Skripal; un’altra chicca riguardava la «letalità» delle forze armate britanniche in un’epoca di tagli e diminuzioni di organico e arsenale bellico mai conosciuta prima. Ma pur nella sua gravità quest’ennesimo fiasco perde quasi rilevanza sullo sfondo della premiership più catastrofica mai conosciuta da Westminster che le elezioni di ieri, con in palio 248 council in Inghilterra, undici in Irlanda del Nord e sei municipi, potrebbero ulteriormente peggiorare. Come se il danno non bastasse, c’è poi la beffa: non solo Williamson era uno degli alleati principali di May avendone agevolato l’ascesa alla leadership: era anche uno dei pochi del cabinet ad avere buoni rapporti con il Dup, gli unionisti nordirlandesi diventati l’ago della bilancia in tutte le deliberazioni parlamentari su Brexit e che tuttora tiene in piedi questo sgangherato governo.