Marta Lempart è un’attivista polacca per i diritti delle donne e la democrazia.

Che cosa significa per Lei essere a Genova vent’anni dopo il G8?
Il solo fatto di avere la possibilità di partecipare a questi eventi è molto significativo per me. Se sono qui lo devo soprattutto all’invito che ho ricevuto da parte di Raffaella Bolini. Da un punto di vista personale, prendere parte all’assemblea internazionale è un po’ come partecipare a una «staffetta generazionale».

Quali lezioni gli attivisti in tutto il mondo possono trarre dall’esperienza dello Sciopero nazionale delle donne (Osk)?
Bisogna puntare sulle realtà più piccole. Numeri e dati vanno presi con le pinze. Le valutazioni sul grado di partecipazione di un centro si fanno in basi criteri proporzionali alle popolazione di una data realtà. Troppo facile organizzare una protesta in una grande città e poi fa anche più effetto. Lavoriamo tanto per coinvolgere le persone anche in campagna e nei centri più piccoli.

Ci sono delle zone rosse nella mappa dell’attivismo lungo la Vistola?
L’idea di una Polonia ovest, moderna e attiva, da opporre ad un est del paese, sonnecchiante e conservatore, semplicemente non regge. Le persone affiliate alle nostra rete si trovano un po’ in tutte le regioni. Il poter osservare i cittadini che si mobilitano anche in provincia è una grande soddisfazione. E proprio in queste realtà numericamente inferiori che certe prese di posizioni incontrano spesso l’ostracismo della famiglia, degli amici e della comunità.

Un motivo in più per apprezzare l’impegno delle persone attive in contesti del genere. Si può dissentire in Polonia senza rischiare una «macelleria messicana»?
I metodi della polizia sono quelli di sempre, brutali all’occorrenza. Siamo noi a essere più consapevoli. Ormai quasi tutti quelli che partecipano a manifestazioni legali sanno benissimo che la polizia non ha alcun diritto di chiederci di mostrare i documenti. Ultimamente la loro strategia consiste nel formare cordoni intorno ai manifestanti per diverse ore. Soltanto a chi fornisce le proprie generalità è consentito uscire dalla morsa per tornare a casa. In questi casi noi proviamo a resistere a oltranza. L’Osk collabora con gruppi di attiviste in America Latina e nel resto del mondo.

Come si fa a creare una rete di contatto efficace all’estero?
Il nostro segreto è molto semplice: stabilire degli obiettivi comuni da raggiungere. Non c’è bisogno di essere in sintonia su tutti i postulati, parlare allo stesso modo, abbracciare la medesima ideologia su ogni fronte. Per lo sciopero internazionale delle donne nel 2017 ad esempio, siamo partite in tutti paesi da uno slogan comune, «la solidarietà è la nostra arma», poi ogni gruppo si è scelto i propri messaggi di protesta. Da un po’ di tempo i vostri vicini e vicine in Bielorussia vivono in una realtà al limite di una guerra civile.

Siete in contatto con gruppi locali?

L’Osk sostiene Partyzantka, un gruppo di femministe bielorusse attive in Polonia. Le scollature, esibite per strada dall’artista polacco-bielorussa Jana Shostak e dalle altre militanti, con i nomi della aziende che collaborano con il regime di Lukashenko, hanno fatto clamore da noi. Sono un nucleo molto attivo. Tra le varie le stiamo aiutando a mettere in piedi una linea telefonica gratuita per fornire assistenza sociale e legale ai profughi e immigrati bielorussi in Polonia.

Il secondo e ultimo sciopero internazionale delle donne si è svolto nel 2018. Lo considerate un capitolo chiuso?

L’anno scorso abbiamo concentrato i nostri sforzi sul potenziamento della rete a livello locale e abbiamo speso molte energie nelle proteste di piazza contro la messa al bando dell’aborto terapeutico in Polonia. Ma lo sciopero internazionale è un discorso sul quale vogliamo tornare. Le donne continuano ad essere una delle categorie più penalizzate dalla pandemia e noi non possiamo restare con le mani in mano.