Una città dove la Storia ha prodotto traumi e ferite ma dove, allo stesso tempo, tutto sembra fare molta fatica a depositarsi, a lasciare tracce perenni. La Bucarest che la scrittrice e giornalista polacca Margo Rejmer racconta nel suo intenso, commovente e a tratti ironico reportage narrativo pubblicato da Keller (Bucarest. Polvere e sangue, pp. 300, euro 18,50, traduzione di Marco Vanchetti) è insieme metropoli e campagna, con i polli allevati nei vicoli, una sorta di museo a cielo aperto dell’architettura in stile sovietico voluta dal regime di Ceausescu e una vetrina del kitsch post ’89 con i locali coperti di finta seta delle vie commerciali del centro. Per quelle strade Rejmer – tra le protagoniste del Salone dell’Editoria Sociale in corso a Roma, dove oggi alle 18,45 sarà intervistata da Goffredo Fofi -, non racconta solo le storie dei tanti interlocutori incontrati negli anni passati a più riprese in città, ma la memoria dolente, le speranze e le molte delusioni di un Paese passato per le tragedie della guerra mondiale prima e di una lunga tirannia «socialista» poi e che fatica ancora oggi a riconoscersi e a definire un orizzonte possibile per il proprio futuro.

Dal suo libro si ricava l’impressione che la città sia lo specchio di una realtà in qualche modo indefinita che fatica a ritrovarsi nella stessa immagine che offre di sé: cosa rappresenta Bucarest ai suoi occhi?
Rammento la prima impressione che ebbi: se mi trovavo in una città dominata da una specie di cacofonia architettonica in cui labirinti di casamenti in stile comunista si trovavano fianco a fianco con grandi edifici di foggia parigina, a ville moderniste, o al fiabesco stile neorumeno, voleva dire che queste stratificazioni di stili e di tempi nascondevano delle storie che io volevo fare mie. Tutto è cominciato perciò dall’entusiasmo suscitato da un’architettura eccessiva, ibrida, impudica. Ad ogni passo c’era qualcosa di bello e qualcosa di sgradevole. Un po’ come se Parigi avesse fatto una capriola su sé stessa. Bucarest era occidentale se paragonata al retaggio comunista che in qualche modo mi era familiare e al tempo stesso conservava innumerevoli tracce balcaniche, orientali, cose che viste dalla prospettiva dell’austerità di Varsavia mi davano un’impressione di esotismo. La città possedeva fantasia e sfrontatezza e io avevo 26 anni quando ho deciso di andarci ad abitare, ero avida di vita e volevo viverla lì, in mezzo a quella gente e ai suoi racconti, in mezzo a uno spazio urbano che formava una aggrovigliata narrazione composta di mille aneddoti paradossali.

La scrittrice e giornalista polacca Margo Rejmer

Nel libro si afferma che «le storie che raccontano solo sofferenza non hanno alcun valore». Al perché sia però necessario raccontarle lei sembra aver trovato una risposta proprio per le vie di Bucarest, descrivendo sofferenze e ferite incancellabili ma che possono aiutarci ad illuminare il presente.
Penso che non si debba rifilare al lettore un racconto fatto solo di sofferenza. Storie come quelle possono avere un grande impatto emotivo, possono creare empatia, ma l’essenza della vita è il cambiamento, la ricerca di nuove strategie di sopravvivenza, l’assimilazione e l’elaborazione di un trauma. Una delle protagoniste, raccontando la storia della tragica vita di suo nonno, cerca di dare un significato alle sofferenze che gli erano toccate, dar loro un senso, quasi che il nonno non fosse stato solo una vittima passiva, un individuo stritolato negli ingranaggi della macchina del potere. Bucarest tenta di mostrare una società che non ne può più di essere percepita come vittima, che ne ha fin sopra i capelli della propria passività e al tempo stesso è satura di fatalismo. Il mio libro successivo, Fango dolce più del miele, è incentrato su racconti di persone che, immerse nel completo isolamento del regime albanese, hanno provato a costruirsi un proprio spazio di libertà interiore, non foss’altro tramite la lettura, l’ascolto della radio, e coltivare relazioni con quell’unica persona di cui potevano fidarsi. Fango può essere interpretato come una storia sulle strategie di resistenza, sulla ricerca di un senso dentro l’insensatezza. Anche se i miei personaggi albanesi hanno patito grandi sofferenze e paure hanno continuato a praticare rituali o comportamenti che dessero loro la sensazione di essere in grado d’agire, malgrado rischiassero di perdere la libertà o la vita. Le storie in cui c’è solo sofferenza sono storie di traumi non elaborati dopo molti anni. Raccontare una storia è perciò un po’ reagire, dare un nome al trauma, cercare gli strumenti per venirne a capo, renderlo solo uno degli elementi che compongono la vita. Ciascuno di noi costruisce ogni giorno la narrazione del proprio passato, fa un inventario della memoria, racconta a sé stesso il proprio destino correggendo i propri ricordi.

Nei suoi itinerari per le vie di Bucarest non incontra solo persone, ma centinaia di cani che vivono per strada, quasi ad evidenziare che la natura della città si muove su una linea indefinita, su un confine non stabilito chiaramente nello spazio ma forse anche tra chi la popola.
Le descrizioni di cani stravaccati per le strade risalgono a dieci anni fa. Oggi a Bucarest non ci sono più cani randagi, verso il 2014, col favore della notte, sono cominciati a sparire uno dopo l’altro. Nonostante le proteste pubbliche, le autorità della capitale hanno iniziato ad avvelenare e a deportare in massa gli animali, perché non erano in grado di far fronte a questo problema. Per molti abitanti città è stato un dramma: si prendevano infatti cura dei cani randagi a modo loro, se non altro perché gli ricordavano il villaggio che avevano abbandonato. Agli occhi dei viaggiatori occidentali i cani di Bucarest hanno rappresentato per tantissimi anni il caos orientale, la sporcizia, la violazione delle regole dell’ordine pubblico. La scomparsa dei randagi avrebbe dovuto rendere Bucarest un luogo civile, farne finalmente una città occidentale. Solo che è stato fatto nel modo più barbaro e cinico, ignorando le proteste dei residenti, praticamente in modo illegale. Così, tanto l’esistenza degli onnipresenti branchi di cani randagi quanto la loro improvvisa scomparsa vanno interpretate in senso politico: è una metafora dei problemi che affliggono la società, un simbolo della dissoluzione dell’ordine sociale. Anche se di cani non ce ne sono più ho voluto che quel capitolo restasse nel libro perché il problema dei cani randagi è un fenomeno universale che mostra il crollo delle istituzioni, una diversa interpretazione di cosa sia il bene pubblico e anche l’impotenza delle persone di fronte ai problemi da esse stesse creati.

Guardando indietro, alla rivoluzione dell’89 che depose Ceausescu, Octavian, uno dei suoi interlocutori, afferma: «Credevamo che qualcuno avrebbe infine dato aria a questa stanza asfittica e piena di muffa chiamata Romania, ma è passato un sacco di tempo e l’aria è ancora viziata». 30 anni non sono bastati per mutare le cose?
Nel caso della Romania post-trasformazione, l’onda sinusoidale è molto chiara: periodi di progresso sociale si intrecciano con periodi di regressione, e questo appare assai evidente nel modo in cui i politici cercano di sostenere o bloccare le riforme anticorruzione nel Paese. Lo si è visto in diversi casi come, su tutti la grande tragedia del club Colectiv (una discoteca di Bucarest distrutta da un incendio nel 2015, ndr), resa possibile dal fatto che erano state ignorate del tutto le procedure di sicurezza grazie alla corruzione. Nel locale morirono 26 persone e altre 38, rimaste ferite, sono decedute in seguito negli ospedali. E anche in questo caso è emersa l’ombra della corruzione: i detergenti utilizzati per la disinfezione erano stati diluiti dieci volte, e per questo molte delle vittime dell’incendio sono morte per infezione batteriologica nonostante avessero riportato ferite lievi. A quel punto i cittadini hanno chiesto un cambiamento profondo, un rinnovamento della Romania nel segno di slogan come «La corruzione uccide, l’indifferenza uccide, il silenzio uccide». Solo che a volte la piazza riesce a provocare cambiamenti politici, a volte l’entusiasmo si spegne. Quanto si può mettere in discussione un sistema cementificato? Così oggi i rumeni sono ancora una volta profondamente delusi dall’élite politica, hanno perso il loro spirito combattivo e hanno smesso di credere alle proteste.

Nel libro sull’Albania – che Keller pubblicherà a breve – parla degli «anni di tormenta vissuti dal Paese dominato da un dittatore comunista psicopatico». Si trattava di Hoxha, mentre per la Romania è la figura di Ceausescu ad aver dominato la scena. Quale il legame tra queste realtà e, più in generale, guardando da Varsavia, è l’eredità del «socialismo reale» a pesare ancora?
Anche se in Polonia svolgo principalmente l’attività di giornalista, continuo a sentirmi una scrittrice, il che significa che quando costruisco le mie storie cerco sempre un elemento universale, qualcosa in più che descriva meccanismi psicologici universali. Sia Bucarest che Fango raccontano di sistemi autoritari, della graduale riduzione di libertà in cambio dell’illusione di un senso di sicurezza. Ceausescu era il «padre della nazione», Hoxha un «bravo zio», ma entrambi avevano le mani sporche di sangue, entrambi spiavano e sorvegliavano i propri cittadini e quando era necessario ne facevano strame. Al tempo stesso sia la Romania che l’Albania hanno una forte nostalgia del passato. In un sondaggio su quale governante abbia fatto più male alla Romania, Ceausescu è arrivato primo, ma è arrivato primo anche in un sondaggio sul governante che più aveva fatto del bene. Questo riflette perfettamente la tensione che la gente prova tra il bisogno di sentirsi libera e il bisogno di sicurezza. Per alcuni la libertà è indispensabile, per altri no. Nel mio Paese la destra radicale sembrava resuscitare il socialismo nella Polonia neoliberista e dava l’impressione di poter far fare un respiro di sollievo alla gente. Adesso l’inflazione cambia la percezione della situazione economica, ma in un momento di tensioni e di crisi una parte dei cittadini è alla ricerca di tutele più affidabili anche se oltre a quelle non si vede nulla. Così, gli analisti affermano che se il PiS riuscirà a far superare l’inverno ai polacchi, vincerà le prossime elezioni.

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e la guerra in corso interrogano soprattutto i Paesi un tempo legati e oppressi da Mosca. Come si vive tutto ciò in Polonia?
I polacchi hanno nel sangue la mancanza di fiducia verso la Russia, la nostra identità si è formata sulla resistenza alla Russia, a cominciare dalle spartizioni del XVIII secolo. A soffrire adesso sono gli ucraini, ma penso che in molte case polacche ci sia la sensazione che noi saremo i prossimi. Ecco perché i polacchi possono lamentarsi dei prezzi galoppanti, della mancanza di carbone, dell’insicurezza, ma molti si rendono conto che tutto questo disagio è nulla in confronto al boato che la Russia può far tuonare alla nostra porta.