«Siamo in rivolta, siamo in lutto, siamo qui, non ce ne andiamo. Siamo la rivolta femminista contro la distruzione capitalista patriarcale». È il messaggio in turco apparso ieri sull’account Twitter della Marcia notturna femminista dell’8 marzo, poche ore dopo l’ufficializzazione del divieto a manifestare nel cuore di Istanbul. Accade ormai da anni, ogni 8 marzo: polizia e governo si barricano dietro piazze chiuse, blocchi stradali, agenti anti-sommossa e l’ovvio ricorso a ordini questurini.

Da anni accade anche che le donne e le persone Lgbtqia+ ignorino il divieto. È successo di nuovo ieri. Nel tardo pomeriggio turco sono comparse a centinaia (diventeranno decine di migliaia poco dopo) nel distretto di Beyoglu, dove si cela lo spazio di ogni protesta: piazza Taksim, Istiklal Avenue.

QUEST’ANNO, a Taksim, si ritrovano vecchie e nuove rivendicazioni. Che è poi unica, la lotta delle donne contro le tante forme assunte dal patriarcato. È trascorso poco più di un mese dal devastante sisma del 6 febbraio (quasi 50mila morti accertate) e in piazza le donne hanno portato tutto il peso del milione e mezzo di sfollati ancora senza una casa.

E hanno portato i 334 femminicidi del 2022 (a cui si aggiungono 245 casi sospetti, archiviati dalle autorità come «non si tratta di omicidio»), il tasso crescente di disoccupazione femminile, l’inflazione che spinge milioni sotto la soglia di povertà e rende inaccessibili vaccini per l’Hpv, assorbenti, prodotti per l’igiene.

Ma anche la settantina di giornaliste in prigione, l’uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere perché «è uno strumento contro la famiglia tradizionale» e la narrativa del governo di destra di Akp e Mhp, quella della donna principessa del focolare domestico, e basta.

PER QUESTO il 5 marzo il comitato della Marcia notturna ha chiesto le dimissioni del governo a immagine e somiglianza del presidente Recep Tayyip Erdogan. Le autorità hanno risposto nel primo pomeriggio di ieri vietando la marcia perché «potrebbe scaldare gli animi» ed è essere ritrovo «di gruppi vicini a organizzazioni terroristiche». Oltre al pericolo di limitare «la libertà delle persone di spostarsi e lavorare».

Già dal mattino le stazioni della metro di Taksim e Istiklal erano state chiuse e veicoli e agenti blindavano la zona. È servito a poco: il corteo è partito a Istanbul (ma anche ad Ankara e Smirne), tra bandiere viola, migliaia di cartelli, il grido «Jin Jiyan Azadi» e un mega telo arcobaleno fatto piovere dal tetto di un parcheggio coperto, quei colori che tanto prurito provocano all’omofobia governativa.

E poi tutte a saltare al grido «Tayyip, dimettiti»: «Siamo qui per le nostre sorelle che hai fatto morire sotto le macerie». La polizia non è intervenuta subito, il governo sa di essere in bilico su un filo sempre più corto. In chiusura però spray al peperoncino contro la prima linea.