Se il marxismo non è una teoria sociologica ma una guida per la trasformazione rivoluzionaria dovrebbe spesso rammentare la maledizione che il fondatore del socialismo scientifico lanciò contro la classe dominante: «Spero che la borghesia si ricorderà dei miei favi fino al giorno della sua morte». Con queste parole si è aperto, nei giorni scorsi, l’importante convegno che si è tenuto a Mosca, patrocinato dalla Fondazione Rosa Luxemburg e ospitato dalla Università per gli studi sociali, in occasione del bicentenario della nascita di Marx.
Il simposio ha cercato di muoversi dentro un delicato equilibrio che potesse contemplare l’analisi teorica ma anche la critica del presente seguendo le tracce e le mappe interpretative che il Moro di Treviri ha lasciato dietro di sé. Una scommessa essenzialmente vinta: accanto alla relazione sulla teoria del modo di produzione asiatico e il suo sviluppo del docente di storia all’Università Statale di Mosca Ilya Budraytskis o al contributo di Tony Wood della New Left Review sul ruolo avuto da José Carlos Mariátegui per una inedita comprensione dell’America Latina, si sono alternati interventi che si ricollegavano direttamente ai movimenti sociali di questi anni, come quello di Alexey Rehatin sui caratteri del recente movimento russo contro la riforma delle pensioni o il ruolo delle donne marxiste nel nuovo movimento femminista americano di Maria Koncin.
La relazione di Alekej Gusev (docente alla Lomonosov di Mosca e fondatore della Biblioteca Victor Serge) sulle «interpretazioni marxiste del crollo dell’Unione Sovietica» non poteva non provocare un ampio dibattito. Rivoluzione democratica e «passo di lato» dal capitalismo di Stato a quello privato, come sostiene lo stesso Gusev, oppure sconfitta dell’ipotesi rivoluzionaria novecentesca derivata dai limiti intrinseci allo stesso Ottobre, come hanno argomentato altri studiosi. Al termine del convegno, abbiamo incontrato Boris Kagarlisky marxista dissidente in Russia già negli anni ’70, sociologo di fama internazionale e autore, tra l’altro, di Empire of the Periphery: Russia and the World System (2008) e Neoliberalism and revolution (2013).

A che punto è il dibattito sul lascito di Marx in Russia?
Il sistema burocratico ci aveva consegnato una lettura di Marx falsa: la torsione positivistica della storiografia sovietica dopo la morte di Nikolaj Pokrovskij nel 1930 ne è il più chiaro esempio. Eppure proprio nell’epistolario sulla Russia tra il Marx «maturo» e i populisti russi (e, in particolare, la celebre lettera a Vera Zasulic) era venuto a galla che i risultati della ricerca di Marx si basassero essenzialmente su materiale da lui studiato in Occidente. Non si poteva applicare alla Russia e ancora meno all’India o alla Cina. I dati statistici e le ricerche che abbiamo a disposizione oggi rispetto all’epoca di Marx permettono nuove interpretazioni e nuove sperimentazioni del materialismo storico. Il metodo utilizzato da Marx non era pienamente applicabile alle realtà non europee. Il contributo di Braudel e ancor prima le intuizioni di Rosa Luxemburg nella Accumulazione del capitale va proprio in questo senso: dare una nuova configurazione geografica allo sviluppo capitalistico.

L’isolamento dell’Urss dal dibattito del marxismo in occidente vi ha condizionato?
In una certa misura certamente, ma siamo riusciti a colmare il gap. Molti marxisti russi hanno ormai integrato nel loro bagaglio la Scuola di Francoforte che, del resto, con l’eccezione di Habermas, si è sempre ritenuta marxista. Abbiamo letto e criticato il neo-autonomismo, integrandolo nel nuovo ciclo di proteste anticapitaliste iniziate nel XXI secolo. Io stesso ho cercato di interpretare i nuovi movimenti da Occupy Wall Street a Piazza Tahrir. Credo che rappresentino vere e proprie insurrezioni delle nuove classi medie urbane delle metropoli mondiali.

Su cosa si sono concentrati i suoi studi recentemente, oltre alla interpretazione dei nuovi movimenti?
Ho cercato di ricostruire e comprendere la storia della Rus’ dai suoi albori del principato di Kiev fino a Putin, utilizzando, anche se non esclusivamente, gli strumenti messi a disposizione da Emmanuel Wallersterin e dalla scuola del «sistema-mondo». Ciò ci permette di comprendere alcune costanti della storia di questo paese, dal suo carattere semi-periferico all’interno della catena neo-coloniale fino al ruolo storico dello Stato nello sviluppo economico. Non solo in epoca sovietica ma anche in epoca zarista, arrivando all’oggi con il «sistema Putin», dove risorse e ricchezze del paese sono controllate o di proprietà del management pubblico.