«Non si è fatto vedere nessuno in queste settimane dalla Asl. Ho anche chiamato più volte il capo della comunità indiana di Sabaudia che mi ha solo presa in giro. A Bella Farnia ci sono indiani che continuano ad andare a lavorare in alcune aziende anche se stanno male. Questo accade perché altrimenti non verrebbero più richiamati dal caporale. Oppure alcuni padroni non gli rinnoverebbero il contratto perché sostituiti dai braccianti sani».

A parlare è Sonia Kaur, ragazza di origine indiana ma residente a Sabaudia, nel residence Bella Farnia Mare, in provincia di Latina. Il residence è la dimora di migliaia di indiani, bangladesi e pakistani oltre che di varie famiglie italiane. Sono originari soprattutto del Punjab, presenti dalla metà circa degli anni Ottanta e da allora impegnati in agricoltura in attività bracciantili spesso in condizioni di sfruttamento ed emarginazione.

MOLTI DI LORO conoscono i pericoli della pandemia e tutti sanno molto bene la tragedia che sta accadendo in India. Nessuno di loro è infatti tornato da quel paese nel corso degli ultimi mesi. Sotto questo profilo non è plausibile l’ipotesi di un contagio della comunità per via della cosiddetta variante indiana, peraltro solo più trasmissibile ma non più aggressiva. Il Comune di Sabaudia ha tradotto e diffuso del materiale informativo ma sembra insufficiente. Bisognerebbe ad esempio organizzare dei video tutorial in lingua punjabi, hindi e hurdu per diffonderli mediante i social allo scopo di raggiungere tutti.

IN ALCUNE AZIENDE agricole si stanno facendo i tamponi, eppure in alcuni casi i lavoratori vengono chiamati a lavorare a giornata e senza contratto. Questo impedisce un monitoraggio adeguato e diffuso. Se il Covid si unisce alla variabile strutturale di questo sistema, ossia lo sfruttamento e il padronato, si genera un circolo vizioso che rischia di essere drammatico, in primis per i migranti. Sonia lo dice esplicitamente. «Vedo ancora i furgoncini carichi di lavoratori indiani e alcuni stanno anche male». Dello stesso avviso è Benedetto, bracciante da sempre ma di origine italiana. Lavora accanto ai braccianti indiani e bangladesi da anni e nel corso degli ultimi mesi continua a raccontare di caporali che portano dentro alcune aziende vari lavoratori per essere impiegati senza contratto e senza mascherina. Qualcuno di questi padroni è stato già denunciato nel corso delle ultime settimane proprio per sfruttamento della manodopera immigrata e utilizzo di fitofarmaci illegali e pericolosi per la salute dei lavoratori, dei cittadini e dell’ambiente. «Il padrone – dice Benedetto – chiama il caporale che porta questi ragazzi che non possono che lavorare alle condizioni imposte, ossia senza mascherina e guanti. È un casino. Qualcuno si sente male e raramente va in ospedale. Il problema è che qui non si vede nessuno. Dovrebbero venire a fare i tamponi e i controlli perché a rimetterci siamo sempre noi lavoratori».

La Cgil di Frosinone e di Latina già da alcune settimane ha avvertito tutte le autorità competenti. La Asl di Latina riconosce l’esistenza di diversi casi di Covid nella comunità indiana e ha attivato il monitoraggio in diverse aziende. Bisogna però entrare nei luoghi di residenza e non solo in alcune aziende agricole e preparare un’attività di screening con riferimento non solo ai lavoratori e lavoratrici ma anche alle loro famiglie, a partire dagli anziani. Il rischio altrimenti è un’attività pure utile ma parziale per capacità di intervento e informazione.