La «Storia» tanto attesa dal summit di Singapore non si è mostrata davvero nelle immagini di rito: non era dunque dipinta sui volti sorridenti, nelle strette di mano che tutti hanno visto. E non era neanche annunciata nel «documento epocale» firmato alla fine di un meeting atteso da tutto il mondo.

La Storia – in realtà – è sembrata nascondersi dapprima negli sguardi di Kim e Trump appena arrivati al Capella Hotel, un attimo dopo essere scesi dalla macchina e si è palesata nei loro volti tesi, squadrati e nei loro occhi presi a guardarsi intorno e percepire, realizzare – forse per la prima volta – di essere i protagonisti di un evento gigantesco.

DOPO LE ESPRESSIONI del volto, la Storia è apparsa nei corpi non addomesticati e preparati come nelle foto a favore di camera. Kim è sceso dalla sua vettura e ha compiuto alcuni passi, apparendo spaesato. Si è guardato intorno per trovare l’imbocco dell’hotel, ha tenuto gli occhiali nella mano destra, non ha sorriso per niente. Trump similmente è sceso dalla sua auto (più tardi nel corso di una passeggiata a due, ha mostrato l’interno all’amico coreano) e ha guardato dritto davanti a sé, fingendo sicurezza. Ma le sue mani, prese nel gesto di tirare giù la giacca – quasi a piedi uniti –, hanno consentito di cogliere un momento di emozione, benché «marziale». Poi via verso la porta e infine verso il pubblico; per Trump è stato più semplice, Kim sembrava più impacciato. Poi la stretta di mano e da Kim è partito un Nice to meet you Mr President che a Trump deve avere regalato grande gioia. Un ragazzo, il coreano, un astuto uomo d’affari, lui. Mentre camminavano fianco a fianco – poco dopo – Kim ha detto qualcosa prontamente tradotto alle sue spalle: Trump si è fatto una gran risata. Il ragazzo ci sa fare, deve aver pensato. D’altronde il giorno prima aveva detto che in un minuto sarebbe stato in grado di capire di che pasta è fatto Kim Jong-un.

 

 

IL RESTO LO RACCONTANO le foto che hanno fatto e faranno il giro del mondo. Quaranta minuti di faccia a faccia – abbastanza per fare dire più tardi a Trump di una grande empatia raggiunta con il leader di Pyongyang – poi l’arrivo delle delegazioni e il pranzo di lavoro.

Alle 14 ora locale, Trump e Kim erano di nuovo di fronte alle telecamere, perché gran parte del lavoro era già stato fatto tra domenica e lunedì dai due team arrivati a Singapore. E anche in questo caso il rituale della firma su un documento che risulterà poi vago e pieno di belle speranze ma con poche specifiche e obblighi, ha nascosto la Storia: alla loro uscita di scena Kim ha appoggiato una mano sulla schiena di Trump che ha subito ricambiato.

ISTANTANEE E RITUALI significativi per un evento iper mediatico rappresentato da due personaggi che pur seppellendo segreti (Kim ne deve avere di terribili) hanno fatto di tutto per apparire umani. Poi però, ci si è concentrati sul famoso documento, che Trump aveva definito «piuttosto globale», un’espressione lessicale incredibilmente capace di rappresentare il presidente americano.

KIM E TRUMP hanno firmato una sorta di memorandum breve che in pratica di concreto non dice nulla. Si nomina la «denuclearizzazione completa della penisola coreana» ma non vengono specificati i termini perché sia completa, verificabile e irreversibile, i crismi perché questo processo possa essere credibile. Dopo tutto questo, Kim e Trump sono ripartiti. «The Donald», però, prima di tornare negli States ha tenuto una lunga conferenza stampa, dove ha dimostrato come al solito la sua mentalità sbrigativa, vaga e tesa a ottenere le «sembianze» di qualcosa di solido. Una sorta di pubblicitario degli accordi. Ha detto che con Kim c’è stato un dialogo onesto, ha confessato che prima del summit si erano sentiti al telefono e che sul tema dei diritti umani, argomento sul quale ci sono state diverse domande, si lavorerà fin da subito. In compenso, parlando di possibilità economiche di una futura Corea pacificata, ha sottolineato le «bellissime spiagge» del Nord. Kim, inoltre, da «Rocket Man» è diventato «incredibilmente talentuoso»: secondo Trump è un buon negoziatore – parola di esperto – e gli avrebbe garantito la completa denuclearizzazione.

SE SI FIDA TRUMP dobbiamo fidarci tutti. Fino ad allora rimarranno le sanzioni, rimarranno le basi, verranno meno solo le esercitazioni con la Corea del Sud perché, come tutti i «giochi di guerra», costano troppo.

In generale, per il resto, ha detto il presidente Usa, servirà del tempo. Tempo che intercorre ormai dal 1953. E oltre al tempo ci vorrà quanto Trump ha fatto palesare in conferenza stampa: un trattato di pace.

SE QUANTO ACCADUTO IERI a Singapore porterà a questo, sarà una grande vittoria per i coreani. Ora come ora però, siamo di fronte a qualcosa di importante, che si riverbererà sui futuri assetti dell’Asia, ma che potrebbe non durare, o peggio, potrebbe schiantarsi contro la noia che Trump sembra provare di fronte a ogni cosa il cui fascino mediatico va a svanire.

O potrebbe succedere altro: alla domanda di un giornalista Trump ha risposto di credere alla sincerità di Kim. Ma – ha specificato – «potrei sbagliare, potrei ritrovarmi davanti a voi tra sei mesi e dover dire mi sono sbagliato. Non so se potrei ammetterlo, ma troverei comunque qualche tipo di scusa». La questione però potrebbe essere posta in altri termini, ovvero: ci si può fidare di Trump?

 

Pyongyang, 12 giugno. Pendolari leggono le ultime sul vertice di Singapore dalle pagine del «Rodong Sinmun» in una stazione della metro (foto Afp)