Sebbene al centro ci sia l’Argentina dell’era Milei, ecco un articolo da leggere, perché può fornire qualche indicazione utile pure per l’Italia dell’era Meloni: il titolo è «Come legge l’estrema destra?», è uscito sul quotidiano di Buenos Aires Página12 e l’autore è Diego Sztulwark, docente di filosofia politica e coordinatore di gruppi di studio sui movimenti sociali in America Latina.

Lo spunto viene da un’intervista rilasciata poco dopo la vittoria di Javier Milei da colui che i media argentini presentano come il condottiero della «battaglia culturale» dell’attuale ultradestra, Agustín Laje. Proprio La batalla cultural si intitola uno dei libri più recenti di Laje, trentacinquenne, nativo di Córdoba, fiero «paleolibertario e antifemminista», prolifico autore di volumi sul cui contenuto è difficile avere dubbi (uno per tutti: El libro negro de la nueva izquierda: ideología de género o subversión cultural).

Secondo la pagina che gli dedica Wikipedia il giovane «maître à penser» a fianco di Milei è «uno dei principali promotori latinoamericani della teoria del complotto chiamata ‘marxismo culturale’». In realtà – osserva Sztulwark – Laje, e in generale la «nuova destra» argentina, prova nei confronti di autori come Gramsci, Foucault o Laclau un sentimento in cui all’avversione si mescola il fascino. Può sembrare strana questa simpatia per il nemico, ma diventa più comprensibile pensando che, a differenza di un tempo, la «nuova destra» (vale a dire, citiamo ancora Sztulwark, «la convergenza politica di liberalismo libertario e conservatorismo nazionalista, componenti ideologiche presenti nella formula Milei-Villarruel, ma anche nel trumpismo»), «prende molto sul serio l’area di intervento politico che chiama ‘cultura’» e nei testi dei pensatori marxisti «percepisce una trionfale manovra teorica e politica, volta a far uscire la sinistra dalla sua sconfitta nel campo della lotta di classe».

In particolare, Gramsci diventa oggetto di paradossale identificazione, in quanto «intellettuale di partito la cui forza è stata battuta, ma che sa trovare nuovi scenari in cui riprendere la contesa». Un modello, quindi, per Laje, convinto che «la lotta culturale è l’elaborazione del fallimento».

In che modo, però, si chiede Sztulwark, un giovane e rampante esponente della «nuova destra» può davvero rispecchiarsi in un Gramsci imprigionato e sconfitto?

La spiegazione, secondo il politologo, sta nel fatto che «la vecchia destra si è rappresentata come vittoriosa nella lotta di classe degli anni ’70 (terrorismo di stato), ma è stata poi sconfitta nel campo narrativo della cultura (i processi alle giunte di Alfonsin, la decisiva influenza sociale delle Madri di Plaza de Mayo, il rifiuto del neoliberismo che ha caratterizzato i piqueteros del 2001, la fine della politica di impunità del governo kirchnerista e il rifiuto del patriarcato che ha accompagnato la lotta contro l’aborto clandestino)». In questo senso, Laje intende ingaggiare battaglia perché la destra si imponga anche sul piano della cultura.

E la sinistra? Risponde Sztulwark: «Se la ‘nuova’ destra si definisce per l’importanza che attribuisce alla lotta contro il ‘marxismo culturale’, spetta alla sinistra rivedere la propria concezione del rapporto tra economia e cultura, per evitare la caricatura di sé stessa come progressismo vuoto, incapace di dare una dimensione politica all’economia, come critica della proprietà privata concentrata e non come sua regolamentazione adattativa».

Certo, in Italia abbiamo un ministro della cultura che posiziona Times Square a Londra e ammette di non avere letto i libri su cui ha espresso un voto, ma non è un buon motivo per non prestare attenzione a quanto succede oltre oceano.