Il cinema di Luis Ospina ruota attorno a tre capisaldi: la città, la memoria e la morte trattati con forme, generi e formati cinematografici diversi. Il primo filone contraddistingue tutta la prima parte della sua produzione, interamente dedicata alla città natale Cali, dall’esordio Oiga, vea! (1972), realizzato con l’amico di una vita Carlos Mayolo, in cui osserva le trasformazioni della città durante i VI Giochi Panamericani – con l’esclusione della popolazione dal grande evento. Sempre con Mayolo, Ospina firma Agarrando pueblo (1978) una denuncia impertinente della «pornomiseria», quel cinema miserabilista che si arricchisce vampirizzando la povertà.

CON GLI AMICI poi riuniti nel «gruppo di Cali», filma il Carnevale (Cali: de película, 1973), la vita quotidiana e i sogni degli abitanti (Cámara ardiente, 1991), il lavoro (Arte-sano cuadra a cuadra, 1988 e la trilogia Al pie-Al pelo-A la carrera del 1991), la vivissima scena artistica locale tra passato e presente (Cali: ayer, hoy y mañana, 1995), l’impatto del narcotraffico sul tessuto sociale e urbanistico della città (Adiós a Cali, 1990).
La memoria è uno spazio che Ospina percorre sia esplorando la storia del cinema, come per esempio in En busca de «Maria» (1985), sia la propria come in Andrés Caicedo: unos pocos buenos amigos (1986) dedicato all’amico scrittore morto suicida a venticinque anni nel 1977, e ricordato anche nel più recente Todo comenzó por el fin (2015). Quest’ultimo prende avvio nel 2012 con la diagnosi a Ospina di un tumore gastrointestinale che va operato d’urgenza. Si tratta di un intenso autoritratto di gruppo in cui le immagini di un grande pranzo tra amici si alternano a interviste e frammenti di un repertorio privato accumulato nel corso di circa quarant’anni.
La morte attraversa il cinema di Ospina ma sempre come una scintilla da cui scaturiscono esplosioni di ricordi, di emozioni, di reazioni critiche: i suoi due film di finzione Pura sangre (1982) e Soplo de vida (1999) sono parabole nerissime sulle ferite della società colombiana, ma lo scopo dell’orrore che mettono in scena è provocare e non già inibire all’azione. La sua natura di cinefilo onnivoro e cineasta eterogeneo è ben illustrata dalle opere che ha scelto di presentare nell’ambito della Carta Bianca offertagli da Doclisboa, il festival del documentario in corso questi giorni nella capitale portoghese, che gli ha dedicato la retrospettiva – la prima in Europa. Si va da La Virge de los sicarios (2000) di Barbet Schroeder, girato a Medellin, al mockumentary Opération Lune (2002) di William Karel sul (falso) allunaggio del 1969, a una selezione di film di Bruce Conner.

CLASSE 1949, Ospina, che ha partecipato a tutte le proiezioni presentando ogni film, è stato anche protagonista di un incontro con il pubblico moderato dalla curatrice dell’omaggio, Agnès Wildenstein – in cui ha ripercorso tutto il suo itinerario cinematografico. Prodigo di aneddoti, ci ha raccontato di aver acquisito confidenza con il cinema sin dall’infanzia: «Mio padre era ingegnere in un’azienda che costruiva piscine il cui slogan era ‘Se pensate a una piscina ricordatevi di Ospina’; era anche un cineamatore, cosa abbastanza rara nella Colombia degli anni Cinquanta. All’epoca esistevano dei camion che giravano per i villaggi mostrando copie in 16millimetri. Quando venivano a Cali le depositavano nel nostro garage, dove conservavamo una piccola collezione di western, travelogues, film scientifici e di guerra. Inoltre in quegli anni si andava al cinema anche tre volte alla settimana».

Che film guardavate da ragazzi?

Andavamo accompagnati dalla domestica, si cercava di accontentare i gusti di ciascuno di noi fratelli, compresa la domestica a cui piacevano i melodrammi, ho visto insieme a lei Lo specchio della vita di Douglas Sirk. Già da bambini avevamo sviluppato un gusto preciso e sceglievamo cosa vedere, come fossimo dei curatori. Ma a quell’età non si ha una politica degli autori bensì una politica degli attori: io amavo i peplum e i western, il mio attore preferito era Kirk Douglas mentre mio fratello preferiva Burt Lancaster. Quando è uscito Sfida all’O.K. Corral siamo stati accontentati entrambi.

Ha studiato cinema nell’America degli anni Sessanta…

Nel 1966 mi sono trasferito a Boston per finire gli ultimi due anni di scuola superiore. Lì un professore mi regalò il mio primo libro di cinema sul Giappone. Iniziai anche a vedere cinema sperimentale: Brakhage, Warhol… Quando nel maggio 1968 mi sono diplomato, mio padre mi chiese cosa avrei voluto studiare all’università e gli risposi architettura. Però mi iscrissi a cinema all’Università della California del sud (Usc). Non ero soddisfatto perché era un luogo molto orientato verso il cinema hollywoodiano – lì si sono formati Lucas e Milius – ti chedevano di scegliere che ruolo pensavi di svolgere nell’industria mentre io volevo imparare tutto. Un giorno, un amico che frequentava la Ucla mi invitò a fare un giro nella sua università dove era in corso una grande manifestazione contro Reagan, allora governatore della California. Fu un momento di grande adrenalina, ho deciso di trasferirmi.

È lì che ha realizzato il suo primo cortometraggio?

Dopo i primi due anni si doveva presentare un cortometraggio. Io ero timido, mi sentivo un po’ marginale, non avevo l’automobile e potevo contare solo su quattro amici; con loro in quel 1970 feci il mio primo film Acto de fe che era tratto da Erostrato, un racconto di Sartre, lo avevo scelto per dimostrare di saper narrare una storia. Ogni lavoro veniva supervisionato da un compagno, a me fu assegnata Penelope Spheeris, diventata poi famosa per Fusi di testa.

Una scena da «Agarrando pueblo» (1978)

Tentò di continuare a fare cinema negli Stati uniti?

No, perché il mio sogno non era Hollywood, volevo tornare a casa e creare le condizioni perché si sviluppasse un sistema cinematografico dove mancava. Sono tornato a Cali nel 1971 e ho ritrovato un vicino di casa che amava il cinema, Carlos Mayolo. Insieme, nel 1972 facemmo il film di controinformazione Oiga, vea! e ci unimmo al Cineclub diretto da Andrès Caicedo, la persona più cinefila che conoscessi. Programmavamo, discutevamo, fondammo «Ojo al cine», la prima rivista che diede importanza alla storia del cinema girato in Colombia.

Risale ad allora la volontà di scoprire la storia del cinema colombiano?

Nel 1974 a Bogotà fu organizzata una retrospettiva quasi integrale di tutti i film girati nel Paese sia da colombiani che da produzioni estere, per esempio Fuoco verde con Grace Kelly e Stewart Granger. Così scoprimmo che Cali, la nostra città, era stata una pioniera nel cinema colombiano. Lì è stato girato il primo lungometraggio muto, Maria di Maximo Calvo e Alfredo del Diestro, di cui a oggi non esistono copie come ho ricostruito nel 1985 nel mio film En busca de «Maria». Anche il primo lungometraggio sonoro colombiano è nato a Cali alla fine degli anni Trenta così come negli anni Cinquanta il primo lungometraggio a colori con quel Carlos Ramirez che fu il primo nostro attore famoso a Hollywood. Lui comparve in alcuni film con Esther Williams, l’attrice-nuotatrice preferita da mio padre, fabbricante di piscine.

Il suo primo film di finzione Pura sangre è un horror: come nasce la passione per questo genere?

Negli anni Settanta iniziammo a interessarci a film che non erano dei grandi maestri, ci piacevano i film di serie b, gli horror della Hammer, La notte dei morti viventi ebbe su di noi un grande impatto perché per la prima volta scoprimmo la possibilità di dare una lettura politica del genere. Anche Il demone sotto la pelle di Cronenberg ci impressionò perché raccontava che il corpo è capace di produrre orrore, tra l’altro preannunciando qualcosa che si sarebbe manifestato di lì a poco, l’Aids. Pura sangre cala il mito del vampiro nel contesto colombiano, è una parabola sulla violenza nel mio paese.

Il corto «Video (b)art(h)es» fa pensare che molti dei suoi film compongono i frammenti di un discorso amoroso rivolto a una generazione…

Video (b)art(h)es fu il mio primo e ultimo tentativo di fare videoarte. Su invito di José Alejandro Restrepo, diversi artisti furono invitati a girare videoinstallazioni a partire dal libro di Barthes. Io aprii il libro a caso e mi ritrovai di fronte ad una citazione sul suicidio:«Pour la moindre blessure j’ai envie de me suicider». È curioso perché il suicidio è un tema importante per me, che mi si è presentato molto presto nella vita a causa della morte di Andrés Canceido a cui ero molto legato. E anche il mio ultimo film Todo comenzò por el fin torna su questa mia lotta tra la vita e la morte. In fondo, la morte e la memoria sono l’essenza stessa del cinema.