I venti anni di «A buon diritto», l’associazione fondata da Luigi Manconi, cadono mentre si combatte un’altra guerra: il baratro di tutti i diritti civili, sociali e umani.

Manconi, voi che avete sempre denunciato la violazione dei diritti in Russia, vi aspettavate un epilogo come questo?

No, non l’invasione dell’Ucraina.

Perché? Pensavate che la “democrazia incompiuta” russa non prevedesse anche guerre espansionistiche?

Non credo si possa parlare di democrazia incompiuta, in Russia, ma di un regime dispotico retto da un autocrate dove il sistema politico non è ispirato a criteri democratici, perché non c’è divisione dei poteri, non c’è indipendenza della magistratura e soprattutto non c’è una rappresentanza politica libera e riconosciuta. Ma immaginavo – sbagliando, come quasi tutti – che l’equilibro dei rapporti di forza, le relazioni internazionali e la situazione di quella regione non portassero ad una precipitazione di tipo imperialista.

Luigi Manconi

Lei è stato tra i primi sostenitori dell’Europa, il cui sogno fondativo era quello di comprendere Paesi molto diversi proprio per evitare una nuova guerra nel cuore del continente. Col senno di poi, l’Europa avrebbe dovuto comprendere anche la Russia, o perlomeno allacciare più stretti rapporti con quella potenza, come sostiene su La Stampa Massimo Cacciari?

Ho avuto la fortuna di essere amico personale di Alex Langer che univa a una visione profetica una straordinaria concretezza. Era un militante politico molto pragmatico e allo stesso tempo un visionario. Questa idea di un’Europa grande e accogliente l’ho imparata da lui. E sono sempre stato anche molto interessato alle idee di Emma Bonino su questo punto, anche quando mi sembravano irrealizzabili: l’ingresso in Europa della Turchia, di Israele e dell’ex Impero sovietico. Perché credo che sia il modo giusto di porre questo problema: indicare le condizioni attraverso le quali si può entrare a far parte dell’Unione europea, cioè in virtù dei principi dello stato di diritto, delle regole della democrazia e quindi attraverso una condivisione delle idee e dei valori fondanti dell’Europa. È stata l’occasione persa ai tempi di Gorbaciov ma in quei Paesi le condizioni non si sono realizzate e oggi prevalgono tendenze che allontanano dall’Europa.

Lei è stato anche candidato presidente della Repubblica di Sinistra italiana, ma in alcuni suoi recenti articoli ha invece lamentato di non aver trovato al vostro fianco nelle battaglie per i diritti individuali e civili, una certa «sinistra autoritaria» che oggi si schiera contro l’invio delle armi agli ucraini. È crisi tra lei e la sinistra?

No. Intanto io mi riferivo a tutti tranne che al manifesto che mi è stato compagno in quasi tutte le battaglie fatte. E in questi giorni ascolto Nicola Fratoianni usare parole molto mature. Registro invece un sentimento molto diffuso – e non solo sui social – che si esprime nella concentrazione sulla dimensione tutta geopolitica di questa vicenda, nella massima attenzione per l’ideologia delle zone di influenza, per la logica di potenza, e una ossessiva ricostruzione delle cause e delle concause degli accadimenti attuali. E in questo atteggiamento si tralascia ciò che per me è centrale: il punto di vista delle vittime, le quali rischiano di scomparire. Non solo vengono soverchiate dalla geopolitica ma a loro si chiede di arrendersi. E sono richieste che vengono da più soggetti e da più culture della sinistra. Ecco: questi due processi portano a un rovesciamento di ciò che chiama l’ermeneutica della sinistra. Che a mio avviso dovrebbe essere sempre il punto di vista delle vittime.

Malgrado sia alla base dei diritti umani, civili, sociali, dell’autodeterminazione e della democrazia, quanto è dimenticata oggi la parola «libertà»?

Molto. Per questo dico che chi combatte per mantenere la propria libertà e per la democrazia, sia pure da costruire, è un partigiano. Quella è resistenza.

Il presidente ucraino Zelensky davanti al parlamento italiano molto probabilmente evocherà la nostra Resistenza. Sollevando critiche, come è accaduto in Israele quando ha parlato alla Knesset di «soluzione finale» messa in atto sul suo popolo. Siccome è vero che l’Olocausto non è solo lo sterminio di un popolo, non crede che sia sbagliato anche il paragone con la Resistenza?

No, è un errore questo. Mi limito alle inequivocabili parole di Carlo Smuraglia: «Chi resiste all’invasione è un resistente». Anche chi dice che in Ucraina non c’è la guerra civile e che gli alleati lì non sono formalmente in guerra, è in errore. La Resistenza in Europa ha avuto forme diverse: la resistenza dei greci contro le truppe italiane e tedesche e quella degli spagnoli contro il colpo di Stato di Franco. L’epopea letteraria della Spagna anti franchista si chiama non a caso «Romancero della resistenza».

Autodeterminazione, democrazia, libertà come si coniugano con quel tipo di pacifismo che prende le distanze sia da Putin che dall’Ucraina di Zelensky?

Ci sono due forme di pacifismo. Uno profetico di cui tutti abbiamo bisogno, come quello di Aldo Capitini o quello descritto nel 1991 da padre Ernesto Balducci che in un confronto pubblico con me sosteneva «Siamo solo alla vigilia del pacifismo», in costruzione come prospettiva di lungo periodo. Il pacifismo politico lo seguo e marcio con esso quando assiste le vittime delle guerre, aiuta i profughi, protegge le case, cura i feriti, si impegna nelle trattative, crea occasioni di comunicazione tra le due parti in conflitto. Ma poi quando l’aggressore punta il fucile su quel profugo, su quella donna o su quell’anziano, il pacifista sul quale ripongo la mia fiducia interviene come sa e come può per rendere inoffensivo l’aggressore.

Con le armi ai combattenti? Si può anche mandare la polizia…

Certo, allora mandiamo la polizia internazionale, che però deve essere armata. Attenzione però: rispetto chi dice che non se la sente di usare la violenza. Ma la pace a volte pretende l’uso della forza per fermare la guerra. Comunque ho sempre creduto che la resistenza con le armi debba sempre marciare insieme la resistenza nonviolenta.

Il teologo Vito Mancuso ha paragonato l’autodeterminazione di chi decide di morire rifiutando una vita non più dignitosa per sé con l’autodeterminazione di chi decide di morire piuttosto che rinunciare alla libertà. Cosa ne pensa?

Sono totalmente d’accordo. Il principio dell’autodeterminazione è costitutivo dell’intero sistema dei diritti, civili, sociali e politici. Diritti che nascono da un processo di auto consapevolezza e si esprimono come sovranità dell’individuo sul proprio corpo e della comunità sulle proprie scelte di autogoverno. È questa sovranità che fonda l’insieme dei diritti umani.