Sesto e ultimo film italiano in concorso Lubo di Giorgio Diritti ci porta nella neutrale Svizzera mentre rimbombano gli echi della Seconda guerra mondiale. Lubo appartiene alla comunità Jenisch, sono nomadi, campano con spettacoli di strada e altri lavoretti. Inutile dire che non sono proprio ben visti. Ma nessuno avrebbe sospettato che la «civilissima» confederazione elvetica potesse escogitare un crimine di stato come quello dei Kinder der Landstrasse, orchestrato dalla Pro Juventute. In pratica l’esercito reclutava forzatamente gli uomini, mandandoli al confine, poi rapiva i bimbi per strapparli alla loro cultura d’origine e rieducarli presso altre famiglie con nuovi nomi rendendoli irrintracciabili. Questo succede a Lubo. I suoi tre figli spariscono, la moglie muore accidentalmente cercando di difenderli e quando lui lo scopre diserta. Il caso lo porta a fare da spallone a un ebreo che contrabbanda gioielli, lo uccide e si impossessa del molto denaro, dei preziosi e dell’identità dell’uomo.

INIZIA una nuova vita, facoltosa, tesa però a cercare di ritrovare i suoi figli. Almeno inizialmente, tra un’avventura erotica d’alto bordo e l’altra. Col passare degli anni sembra quasi avere abbandonato la sua personale battaglia, innamorandosi di una cameriera italiana con tanto di bimbo appresso. Ma il suo contorto destino lo obbliga ancora a molti testacoda. Non è la prima volta che il cinema affronta la questione obbrobriosa del rapimento di stato dei bimbi Jenisch, che peraltro è andato avanti sino agli anni ‘70. Lo aveva fatto Valentina Pedicini con Dove cadono le ombre (sulla storia di Mariella Mehr), e Urs Egger proprio con Kinder der Landstrasse. Qui all’origine c’è il romanzo Il seminatore di Mario Cavatore che racconta di Lubo. Non è però il fatto che non si tratti di una vicenda inedita il limite del film di Diritti, bensì nell’eccesso di ridondanza di una storia che fa da sfondo e informa tutto che è già di per sé dirompente. La parentesi che segue l’omicidio e il furto d’identità, con il protagonista (Franz Rogowski) che si muove nell’alta società elvetica con grande disinvoltura non convince, così come la scoperta di un nuovo amore (Valentina Bellè) con paternità surrogata compresa. Non solo, ecco spuntare anche la pedofilia praticata dagli addetti projuventute, e il melodramma a forti tinte che connota tutta la storia. Troppo.Non è però il fatto che non si tratti di una vicenda inedita il limite del film di Diritti, bensì nell’eccesso di ridondanza di una storia che fa da sfondo e informa tutto che è già di per sé dirompente.

E PROLISSO con le sue quasi tre ore di proiezione. Un vero peccato perché il tocco vincente del cinema di Diritti è sempre stata la semplicità, l’essere stringato su quel che voleva raccontare. In questo caso, forse eccessivamente innamorato del romanzo, ha perso un po’ di vista la grande Storia, con tutti i suoi orrori, compreso lo scempio compiuto nei confronti degli Jenisch (anche da parte dei nazisti che li mandavano allo sterminio come gli altri nomadi). Certo, meglio sbandare per amore, seppure di un romanzo, che per cinismo.