Un’esplosione, la terra zampilla, la camera trema. «Dio si è nascosto» dice un soldato al proprio commilitone. Sono alcune delle immagini di Tranchées, in italiano «trincee», il documentario presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia opera del giovane giornalista francese Loup Bureau. Il conflitto del Donbass viene mostrato nelle sue viscere, quei bunker dove si alternano momenti tragici ad altri di straniante normalità. I soldati e le soldatesse ucraini, in guerra con i separatisti filo-russi dal 2014, si raccontano tra i ricordi della vita precedente e la difficoltà ad immaginarne una futura. Nei tempi sospesi del rifugio, in quella che diventa quasi un’attesa messianica, emerge la loro confidenza, le conversazioni scherzose e amichevoli che contrastano con la durezza di una guerra di cui sembrano svanire le ragioni. «Sono stato tre mesi nelle trincee dormendo poche ore a notte con i soldati. L’ho girato completamente da solo perché sarebbe stato difficile far entrare una crew» ci ha raccontato Bureau. «Vorrei continuare a realizzare documentari. Amo il giornalismo ma trovo che con il cinema ci si possa prendere più tempo, immergendosi in profondità e mostrando il proprio punto di vista». Reporter per l’emittente TV5Monde, nonostante i soli trentun anni le esperienze sul campo lo hanno reso protagonista di un grave episodio nel 2017, quando venne arrestato dalla Turchia e accusato di terrorismo perché autore di un reportage sulle milizie curdo-siriane Ypg. Abbiamo incontrato Bureau durante il festival e gli abbiamo chiesto di approfondire alcuni aspetti del suo prezioso lavoro.

Cosa l’ha spinta a filmare il conflitto in Ucraina?

Seguo la situazione nel Paese da quando è scoppiata la guerra ma mi sono reso conto che l’interesse dei media è scemato da quando è diventato un conflitto «a freddo»: continuano ad esserci morti e feriti ma non ci sono sviluppi. Credo però che sia una guerra che ci riguarda da vicino perché è l’ultima che si sta svolgendo all’interno dei confini europei, vorrei contribuire a ravvivare l’attenzione.

Il regista Loup Bureau

Nel film i militari abitano le trincee con grande naturalezza, quasi come fosse una vita ordinaria.

In tutte le guerre accanto alle violenze c’è una parte che non vediamo ovvero la vita quotidiana, la routine. È così che scorre la maggior parte del tempo, nel tentativo di adattarsi per sopravvivere. Se vogliamo capire cosa succede durante i conflitti non possiamo ignorare questo aspetto.

Ha pensato di andare a girare anche dall’altro lato delle trincee?

Assolutamente sì, ma purtroppo i separatisti non mi hanno dato il permesso. Sono pochissimi i giornalisti che riescono ad entrare e sono quelli che danno la garanzia di allinearsi al loro punto di vista.

Il film è tutto in bianco e nero tranne il finale, a colori. Perché questa scelta?

Quando sono entrato nelle trincee la cosa che più mi ha colpito sono i rimandi alla Prima guerra mondiale. Le similitudini con le immagini che abbiamo visto nei libri di storia sono moltissime, ho pensato allora che il bianco e nero potesse rivelare questo immaginario. Ho subito pensato però che quando i soldati sarebbero tornati alla vita civile, il bianco e nero non avrebbe avuto senso. L’ultima parte del film è dedicata alle loro emozioni, alla gioia di tornare all’esistenza di prima; tuttavia alla fine capiscono che non sarà così semplice, reinserirsi nella società è per loro forse ancora più difficile che essere al fronte. Il governo non si occupa di questo aspetto e non ha neanche le risorse per farlo, essendoci un’alta disoccupazione è un grande problema, ci sono centinaia di migliaia di ex soldati che non riescono a trovare un lavoro.

Riprende un soldato che accusa duramente l’Unione Europea di non fare nulla per l’Ucraina in ragione di interessi economici con la Russia.

Parliamo sempre di democrazia e libertà di espressione ma se non c’è un interesse non supportiamo realmente i Paesi che lottano per questi valori. Tutti i governi avrebbero potuto fare di più per fermare una guerra che va avanti da troppo tempo.

Ha vissuto una terribile esperienza nelle prigioni turche. Ce la può raccontare?

Mi ha cambiato, era la prima volta che mi succedeva qualcosa di simile sul campo. Come giornalista di guerra sai quali sono i rischi ma finché non ti accade nulla non puoi capirlo fino in fondo. È stata un’esperienza veramente dura, la milizia curda che seguivo è considerata terrorista dai turchi e così hanno trattato anche me. Volevano dare un esempio: se parli di argomenti che a noi non piacciono possiamo incarcerarti, anche se sei un giornalista occidentale. Il mio processo, senza nessun avvocato, è durato quindici minuti e la mia condanna è stata di 25 anni. Poi mi hanno liberato improvvisamente dopo 52 giorni. Sono passati quattro anni ma è qualcosa con cui convivrò per sempre.