Lo scorso lunedì la segretaria generale del Partito dei Lavoratori (Pt), Louisa Hanoune, è stata rilasciata, dopo la decisione della Corte d’Appello militare di Blida di far decadere le due principali accuse a suo carico: «complotto contro lo Stato» e «attacco all’autorità dell’esercito».

Una prima condanna nel settembre 2019 – insieme agli ex capi dei servizi segreti Mohamed “Toufik” Mediène e Athmane “Bachir” Tartag e al fratello del deposto presidente Said Bouteflika – le aveva inflitto una pena a 15 anni di carcere.

Il Comitato nazionale per la Liberazione dei Detenuti (Cnld) aveva definito la sentenza come «politica», influenzata dal clima di repressione voluto dal generale Ahmed Gaid Salah, vero reggente del paese fino alla morte per infarto e all’elezione a dicembre del neo-presidente della repubblica Abdelmajid Tebboune.

Con il volto smagrito e il fisico provato da nove mesi di detenzione, la 66enne pasionaria Louisa Hanoune ha dichiarato, nel primo incontro ufficiale con i membri del Cnld, con voce chiara e decisa di essere «sempre stata convinta della propria innocenza, di aver agito solo per gli interessi del paese e di voler continuare a lottare per la giustizia e per la liberazione di tutti i prigionieri politici e d’opinione».

Nonostante la scarcerazione, infatti, la Corte militare ha confermato l’accusa di «cospirazione» convalidandole una «condanna a tre anni di pena, con nove mesi di carcere», già scontati dallo scorso maggio 2019. Gli avvocati di Hanoune hanno fatto richiesta in Cassazione indicando che «in quanto leader di un partito politico, in un momento di crisi istituzionale, Hanoune aveva richiesto un incontro al consigliere del presidente (Said Bouteflika) per chiedere chiarimenti» e hanno affermato che questa condanna è stata «l’ennesima dimostrazione di un processo politico con un verdetto concordato a priori».

Nel suo recente incontro con i rappresentanti delle diverse regioni del paese, il presidente Tebboune ha ribadito «il suo impegno nel portare avanti un cambiamento radicale per soddisfare la volontà popolare e le esigenze dell’Hirak per un vero cambiamento del sistema».

Nonostante le dichiarazioni di facciata e alcune aperture sulla liberazione dei prigionieri politici, a distanza di un anno la situazione di stallo non cambia e la protesta dell’Hirak non diminuisce.

Nel suo rapporto annuale sulla situazione dei diritti umani, pubblicato il 18 febbraio, Amnesty International denuncia ancora «l’utilizzo delle forze di sicurezza per reprimere il movimento di protesta con arresti arbitrari nei confronti di centinaia di manifestanti».

«Diverse persone sono state consegnate alla giustizia con pene discutibili come “attacco all’integrità nazionale” – continua l’ong – mentre le autorità hanno vietato le attività di diverse associazioni o hanno represso e ostacolato la stampa nel cercare di portare una corretta informazione riguardo al movimento di protesta pacifico dell’Hirak, soprattutto nel periodo delle elezioni presidenziali».

«Né l’incriminazione e la prigionia dei simboli dell’era Bouteflika, né le dichiarazioni di apertura da parte di Tebboune e neanche le intimidazioni e gli arresti nei confronti del popolo che protesta hanno avuto nessun effetto sull’Hirak, che richiede un cambio definitivo del sistema per una nuova Algeria, questa è la nostra speranza oggi come un anno fa», ha dichiarato uno dei leader della protesta, Noureddine Benissad, presidente della Lega algerina per i Diritti umani.