È una decisione dai contorni surreali quella con cui la Corte suprema britannica ha negato ancora al governo Maduro la possibilità di recuperare l’oro venezuelano sequestrato dalla Banca d’Inghilterra: 32 lingotti del valore di 1,6 miliardi di euro.

Un inatteso passo indietro rispetto alla sentenza emessa un anno fa dalla Corte d’Appello di Londra, che a sua volta aveva annullato il verdetto con cui l’Alta corte di giustizia aveva respinto la richiesta di Caracas di trasferire parte dell’ingente somma al Programma Onu per lo sviluppo (Pnud) per far fronte alla pandemia, attribuendo al solo Juan Guaidó, riconosciuto in maniera «inequivocabile» dal «governo di Sua Maestà» come presidente ad interim del Venezuela, il diritto di chiedere la restituzione dei lingotti.

Accogliendo il ricorso del governo bolivariano, la Corte d’Appello aveva disposto che, prima di sciogliere la riserva sulla delicata contesa, sarebbe stato necessario determinare se il governo britannico «riconosca il signor Guaidó come presidente del Venezuela a tutti gli effetti e, di conseguenza, non riconosca il signor Maduro come presidente a nessun effetto». Avanzando dunque il dubbio che il riconoscimento di Guaidó come presidente de iure non impedisse di considerare Maduro come presidente de facto, come sembrava suggerire il mantenimento da parte di Londra di regolari relazioni diplomatiche con Caracas.

La Corte suprema, tuttavia, ha corretto lunedì tale sentenza, definendo «non equivoca» la qualifica da parte di Londra «del signor Guaidò come presidente del Venezuela» e dando mandato al Tribunale commerciale del Regno unito di stabilire a chi, tra Maduro e il leader oppositore, restituire l’oro.

Durissima la risposta del ministero degli Esteri bolivariano: seguendo i dettami di Washington, si legge nella sua nota, «il governo britannico ricorre a una montatura politica fraudolenta, in complicità con fattori estremisti della politica venezuelana guidati dall’impostore Juan Guaidó, con il perverso obiettivo di rubare spudoratamente l’oro dei venezuelani e appropriarsi delle riserve internazionali del paese».

Che il Regno unito continui a considerare Guaidó come il legittimo presidente del Venezuela non potrebbe apparire più grottesco. Tanto più dopo il risultato delle «mega elezioni» municipali e regionali del 21 novembre scorso, stravinte dal governo Maduro e straperse dall’opposizione radicale che, convintasi a partecipare nuovamente alle elezioni dopo tre anni di boicottaggio, ha pagato tutto il discredito provocato dal saccheggio parassitario delle casse statali e dalla lunga serie di promesse mancate che hanno caratterizzato la stagione del «governo per Internet» dell’autoproclamato Guaidó.

Elezioni legittimate dalla presenza di un esercito di osservatori internazionali, tra cui quelli del Centro Carter, delle Nazioni unite, del Ceela (Consiglio di esperti elettorali dell’America latina) e dell’Unione europea.

E se Guaidó – che dal 2019 a oggi ha visto calare da 60 a 16 i paesi che riconoscono la legittimità del suo «governo fake» – ha comunque deciso di prolungare il suo interinato fino alle prossime elezioni presidenziali, il suo isolamento diventa sempre più netto anche all’interno della stessa opposizione radicale: l’ultimo a voltargli le spalle è stato il dirigente di Primero Justicia, Julio Borges, che ha accusato il governo interino di essere «gestito da una casta», di essersi «burocratizzato» e di non compiere più alcuna funzione. Per concludere con un laconico «Deve sparire».