Da una parte tutto sembra un po’ grigio, case povere, una sola stanza dove si vive, si mangia e si dorme e fare sesso è un’acrobazia per non gemere troppo e non farsi scoprire dagli occhi della figlioletta. Dall’altra ci sono i grattacieli, il lusso tecnologico, automobili, cibo, abiti eleganti, la gente appare più pulita persino i cessi della polizia sono migliori. Corea del Nord e Corea del Sud, sfavillio contro grigiore, tute mimetiche contro cappottoni di sovietica memoria, il regime che stampa sui muri la propaganda coi ritratti dei faccioni dei Kim padre e figlio a sorvegliare ogni istante del «loro» popolo, la democrazia ossessionata da spie «potenziali» e armi nucleari dove chi dissente è – «gentilmente» – sbattuto fuori. Il prigioniero coreano, il film di Kim ki-duk che esce ora grazie alla Tucker lavora su quello che il regista (sudcoerano) definisce un paradosso: la specularità tra le due Coree nemiche lungo un confine divenuto un nodo mentale prima che geopolitico, che oppongono – mediaticamente – modernità e arretratezza ma che si rivelano uguali nelle modalità con cui calpestano i diritti, il pensiero e le aspirazioni dei propri cittadini.E per questo sceglie una cifra di realtà, quasi esasperata, a rispondere a questa esigenza politica che interroga presente e passato.

 

 

Il protagonista, Nam Chul-woo, è un pescatore povero del nord, con la sua barchetta esce per riempire le reti ogni giorno di quei pesci che sono l’unico sostentamento della famiglia, la moglie e la figlioletta. Non hanno molto eppure non sembrano lamentarsi. Finché un incidente spinge la barca dell’uomo — «Hai preferito la barca alla patria lo accuseranno poi a Nord – dall’altra parte di quella linea che è solo una labile striscia di boe, resa mobile dalla corrente dell’acqua.

 

A Sud lo catturano, deve essere una spia per riscattare gli errori di un poliziotto assetato di vendetta (la famiglia è morta nella guerra civile) e ossessionato dai comunisti. Sono gentili, lo nutrono, lo vestono, poi lo torturano con tecniche Stammheim o Bolzaneto: pugni, calci, privazione del sonno, luce sempre accesa, crudeli ricatti affettivi su quanto ama di più: la moglie e la figlia, la sola ragione della sua resistenza, e anche della sua volontà a tornare indietro.

 

Infine lo lasciano dopo che le immagini in cui lo si vede in giro per Seul hanno varcato il confine. Di là dove torna nudo, a provare il suo fiero diniego a ogni «tentazione capitalista» lo accolgono come un eroe ma poi tutto ricomincia come dall’altra parte. Interrogatori, accuse, botte, sevizie, identico copione – a parte i cessi, appunto, assai più sporchi.

 

Negli universi illiberali di comunismo e capitalismo – la sola via di fuga e di libertà possibile appare a il sentimento del protagonista, la sua rivendicazione degli affetti, del suo bisogno di un quotidiano che non sembra però avere nessuna possibilità di fronte alle regole dell’ideologia, agli abusi del potere, alle manipolazioni delle politiche. E il suo corpo progressivamente assume questa geografia dell’assurdo, una rete da cui diventa impossibile sfuggire.